Si tratta di sviluppare una nuova cultura che si basi non solo sull'abilità tecnica dell'uomo, ma anche sulla sua saggezza; non solo sulla sua capacità di modificare la natura, ma anche su quella di comprenderla; che veda l'uomo non solo in grado di dare nuove qualità all'artificiale, ma anche di garantire la continuità di quel fragile substrato naturale su cui si basa tutto l'esistente e anche la sua stessa speranza di vita. (E.M.)

venerdì 26 giugno 2015

Occupazione minorile? Si grazie

Cento anni esatti. Il sesto capitolo del volume The School and Society di John Dewey - dal titolo The Psychology of Occupations - è datato 1915, esattamente un secolo fa. Le osservazioni del grande filosofo americano sono ancora interessanti e attuali e possono ancora aiutare a chiarirsi le idee sul tipo di lavoro in cui si dovrebbe cimentare un bambino o un ragazzino durante il suo sviluppo, così come sul tipo di presenza del lavoro nel curricolo e nell'organizzazione scolastica.


Ecco come Dewey chiarisce al lettore i termini del discorso: “By occupation I mean a mode of activity on the part of the child which reproduces, or runs parallel to, some form of work carried on in social life.”

Quindi l'occupazione non è per Dewey un vero lavoro ma comunque un'attività che guarda al lavoro, ai lavori, e che - ad esempio - ne riproduce un aspetto, una componente; un'attività che conserva però, come vedremo, una finalità diversa rispetto a quella più propriamente 'lavorativa'.

Dewey prosegue: “The fundamental point in the psychology of an occupation is that it maintains a balance between the intellectual and the practical phases of experience. As an occupation it is active or motor; it finds expression through the physical organs — the eyes, hands, etc. But it also involves continual observation of materials, and continual planning and reflection, in order that the practical or executive side may be successfully carried on. Occupation as thus conceived must, therefore, be carefully distinguished from work which educates primarily for a trade. It differs because its end is in itself; in the growth that comes from the continual interplay of ideas and their embodiment in action, not in external utility.”

È geniale il modo in cui Dewey individua nel concetto di ‘occupazione’ - in contrapposizione al concetto di ‘lavoro’ - un elemento distintivo della teoria pedagogica che sta costruendo. Mentre il lavoro istruisce soprattutto alla pratica di un mestiere, l'occupazione non persegue una qualche utilità esterna ma, al contrario, ha in sé stessa il proprio fine.

“It is possible to carry on this type of work in other than trade schools, so that the entire emphasis falls upon the manual or physical side. In such cases the work is reduced to a mere routine or custom, and its educational value is lost. This is the inevitable tendency wherever, in manual training for instance, the mastery of certain tools, or the production of certain objects, is made the primary end, and the child is not given, wherever possible, intellectual responsibility for selecting the materials and instruments that are most fit, and given an opportunity to think out his own model and plan of work, led to perceive his own errors, and find out how to correct them-that is, of course, within the range of his capacities. So far as the external results held in view, rather than the mental and moral states and growth involved in the process of reaching the result, the work may be called manual, but cannot rightly be termed an occupation. Of course the tendency of all mere habit, routine, or custom is to result in what is unconscious and mechanical. That of occupation is to put the maximum of consciousness into whatever is done.”

E' possibile che questo tipo di lavoro si diffonda, a partire dalle scuole professionali (cioè le scuole in cui si impara un mestiere), anche in altre scuole. Si tratta di una direzione inevitabile tutte le volte che - come ad esempio nel caso del ‘manual training’ - la padronanza di particolari strumenti o la produzione di particolari oggetti diventano lo scopo fondamentale. Fintanto che sono i risultati in uscita ad essere in primo piano, piuttosto che i diversi stati e lo sviluppo sia mentale che morale interessati dal processo di raggiungimento del risultato, il lavoro può anche dirsi ‘manuale’ ma, a rigore, non può essere definito come una ‘occupazione’.


In una scuola alla continua ricerca di una propria identità laboratoriale, ma sempre in difficoltà nel definire che cosa si debba intendere con tale vaga espressione, il concetto di occupazione delineato a suo tempo da Dewey può essere utile per fare ordine tra i pensieri come tra le parole.

domenica 21 giugno 2015

Selezione scolastica

La necessità di distinguere tra differenti tipi di selezione scolastica - in particolare tra selezione positiva e selezione negativa - è ben espressa in un interessante contributo di Vertecchi a un convegno su 'Educazione e divisione del lavoro' dei primi anni 80. “Il linguaggio educativo è spesso reso ambiguo dalla sovrapposizione di aloni derivanti da accezioni parziali di un termine o singole manifestazioni di aspetti determinati. Quando l'alone è amplificato da mode finisce col pregiudicare anche per tempi molto lunghi usi più corretti del lessico. Qualcosa del genere è accaduto per la selezione, con effetti di riduzione e distorsione sul dibattito complessivo. Vorrei che la distinzione fra «selezione negativa» e «selezione positiva» rendesse di nuovo fruibile un concetto senza il quale i discorsi sull'educazione rischiano di restare tutti in qualche misura incompleti, o reticenti.”


Che cosa dobbiamo intendere allora con queste due espressioni? È più semplice spiegare il senso di una selezione positiva. “Si tratta di indicare per ciascun allievo un percorso formativo che consenta la più ampia espressione delle sue capacità e nello stesso tempo (1) non pregiudichi alcuna possibilità di ulteriore acquisizione di competenze, (2) né sia predittivo, almeno per tempi lunghi, della qualità del lavoro che potrà essere svolto.” Nella selezione positiva c'è quindi l'idea di una definizione individualizzata del percorso di studio unita alla duplice necessità di promuovere ogni ulteriore ampliamento del bagaglio di conoscenze e competenze e di innalzare il livello del loro possesso in modo da non limitare la futura scelta di un'occupazione ad una rosa quantitativamente e  qualitativamente troppo modesta.

Ma è nella descrizione del meccanismo della selezione negativa, assai più complicato e subdolo, che lo studioso svolge alcune considerazioni di una chiarezza davvero illuminante. “È proprio della selezione negativa procedere attraverso esclusioni. Ciò avviene sia quando gli allievi selezionati possiedono caratteristiche scolastiche che lasciano prevedere uno sviluppo favorevole del curricolo, sia quando la previsione è sfavorevole. Potremmo anche dire che la selezione varia secondo una scala le cui posizioni corrispondono a varie misure di esclusione. (A) Se il giudizio sulle caratteristiche scolastiche è del tutto favorevole, l'esclusione riguarda ogni attività di studio che sia accreditata di una dignità inferiore rispetto a quella che si ritiene debba contrassegnare l'impegno intellettuale di allievi «dotati»: la dignità di un itinerario formativo corrisponde a sua volta all'assenza o alla misura della presenza di attività manuali e in genere applicative. (B) A misura del comparire nel giudizio sulle caratteristiche scolastiche di elementi sfavorevoli, la selezione negativa si sposta verso posizioni inferiori della scala, escludendo quelle che sovrastano secondo il criterio di dignità appena menzionato. (C) Ad un giudizio del tutto sfavorevole fa riscontro una reiezione esplicita dal sistema formativo; è raro tuttavia che a quest’esito si giunga in modo drastico; è più frequente invece che la reiezione costituisca l'effetto di una progressiva accumulazione di elementi negativi, contenenti cioè un potenziale di esclusione.” Nella selezione negativa gioca cioè in modo determinante una corrispondenza tra due scale di valore basate, la prima su di un criterio di «valore scolastico» del ragazzo (riferito sostanzialmente ai suoi risultati scolastici), la seconda su di un criterio di «dignità formativa» dell'itinerario (riferito al tasso di presenza di attività manuali o applicative). A partire da una attribuzione di dignità ai diversi itinerari formativi, il meccanismo della selezione negativa 'assegna' quindi in modo quasi deterministico a ogni ragazzo - una volta che ne siano conosciuti i risultati scolastici - il 'suo' itinerario formativo. Quindi l'esclusione che deriva da una selezione negativa agisce non solamente sui ragazzi con i risultati meno brillanti - come normalmente si crede - ma anche sugli altri.


Conclude Vertecchi: “Se si vuole respingere una nozione deterministica di educazione bisogna che la scuola acquisti una capacità di selezione positiva, fondata cioè non sull'esclusione ma sull'inclusione. La condizione perché la scuola sia in grado di attuare una selezione positiva è che la formazione di base assicuri a tutta la popolazione il possesso diffuso di abilità fondamentali: se la selezione è una scelta, e la scelta consente di essere diversi, bisogna però che le condizioni di scelta siano uguali. In altre parole la selezione è positiva se non è condizionata, e non è condizionata se interviene su un corredo di abilità uniformemente posseduto ed apprezzabile per quantità e qualità.” Oggi come allora mi sembra che le condizioni di equità associate ad un 'possesso uniforme' di abilità e di competenze siano, almeno dalle mie parti, ben poco presenti e realizzate. Quella che ancora oggi funziona meglio è certamente la selezione negativa; quella positiva attende ancora il momento - speriamo non troppo lontano - in cui potersi manifestare in tutto il suo valore.

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vedi: Benedetto Vertecchi, “È possibile una selezione positiva nella scuola?”, in “Quale società? Un dibattito interdisciplinare sui mutamenti della divisione sociale del lavoro e sulle loro implicazioni educative”, a cura di Aldo Visalberghi, La Nuova Italia, 1985.

lunedì 15 giugno 2015

Interesse individuale, interesse sociale

Giugno, tempo di scrutini e tempo di esami. Per qualcuno, con la pagella crivellata di insufficienze, se ne riparlerà l'anno prossimo. Per qualcun altro, all'opposto, la commissione d'esame stabilisce i criteri con cui assegnare la lode (parliamo del "dieci e lode" dell'esame di stato di licenza media). E la lode, si decide, discende in modo automatico o quasi automatico dalle valutazioni numeriche delle varie prove: tutti dieci, o al più un nove? ecco che scatta il "dieci e lode" senza discussioni.

Da un lato quindi i meritevoli, dall'altro lato chi non ha voluto, chi non ha creduto, chi non ha potuto, insomma chi per qualsiasi ragione ha de-meritato. Però qualche riflessione questo sistema in me la suscita.


La questione riguarda il riconoscimento di un merito scolastico attraverso l'attribuzione di una menzione speciale, la lode appunto. La cosa in sè è certamente positiva: il fatto che la comunità scolastica si ponga l'obiettivo di attribuire ai più meritevoli una particolare sottolineatura e di additarli metaforicamente come esempio per i compagni mi sembra giusto. Il problema tuttavia emerge nel momento in cui si guardi più da vicino quelli che sono i criteri attraverso i quali il (presunto) 'merito' viene concretamente misurato o riconosciuto.

La scelta di utilizzare (soprattutto) le valutazioni disciplinari come indicatori del merito solleva di fatto da una più impegnativa e approfondita analisi: si assume implicitamente che la valutazione costituisca un efficace indicatore dell'effettivo 'valore' del ragazzo o della ragazza. Questo però potrebbe non essere del tutto vero. Infatti non sempre le valutazioni disciplinari tengono nel dovuto conto il possesso di quelle competenze trasversali 'immateriali' che riguardano l'atteggiamento dei ragazzi nei confronti del lavoro scolastico, la motivazione intrinseca allo studio (oltre a quella estrinseca, cioè legata a spinte o premialità di tipo esterno), le capacità di comunicare e di coinvolgere i compagni come anche di lavorare in gruppo, la capacità di risolvere problemi concreti.

A questa difficoltà se ne aggiunge poi una seconda, meno evidente. Essa riguarda la difficile e non scontata conciliazione tra interessi privati e interessi sociali; infatti è importante distinguere quegli atteggiamenti o quelle prestazioni che si orientano di fatto nella direzione di un interesse della comunità (ad esempio scolastica) o più in generale della società - l'interesse sociale, appunto - e quelle prestazioni o quegli atteggiamenti che hanno si una ricaduta positiva, ma prevalentemente nella sfera individuale, cioè del soggetto (il ragazzo o la ragazza) che li mette in atto - l'interesse privato o individuale, appunto. In altre parole io penso che l'istituzione scolastica si dovrebbe porre l'obiettivo di riconoscere e valorizzare non tanto le prestazioni scolastiche eccellenti in senso generico quanto piuttosto quelle caratterizzate da un elevato interesse sociale, cioè da una forte ricaduta sul piano - ad esempio - della capacità di cooperazione o di collaborazione e della attribuzione reciproca di rispetto e fiducia. Prestazioni, queste ultime, difficilmente verificate e riconosciute quanto meriterebbero con le usuali pratiche valutative.

venerdì 22 agosto 2014

scimmie e bottoni





«È incredibile come una società che vuole essere moderna e competitiva, cioè basata sulla conoscenza (proprio per riuscire a creare più ricchezza per i suoi cittadini), abbia in realtà una ricerca umiliata, un'educazione che nei test internazionali risulta nelle posizioni di coda, un merito negato, un'assenza disperante di cultura scientifica, dei valori calpestati, una corruzione diffusa, un'assenza di un piano energetico degno di questo nome, delle università considerate tra le ultime nelle classifiche internazionali, pochissimo sostegno all'innovazione creativa e all'eccellenza, una cultura e un'informazione che non parlano quasi mai del ruolo profondo e “filosofico” della tecnologia, ma solo delle sue meraviglie o dei suoi guasti (che sono spesso proprio il frutto di un'incapacità di capirlo e gestirlo).»

Sono le pesanti parole con cui qualche anno fa (era il 2011) un noto personaggio della scena culturale nazionale - scopriremo tra un attimo la sua identità - tratteggiava la poco edificante situazione del nostro paese. Mi colpisce molto il riferimento al ruolo della tecnologia, descritto come 'profondo' e come "filosofico". Come dire che la tecnologia rappresenta ormai (e sempre di più) un fattore determinante per gli assetti e le strutture della società; e che, nello stesso tempo, il modo in cui la società ne viene plasmata si comprende di più e meglio attraverso osservazioni e riflessioni di tipo filosofico.

Due mesi fa, scrivendo la prefazione al saggio di un collega e collaboratore, il nostro autore misterioso (ancora per poco) ritorna sullo stesso tema:

«C'è una cosa che non finisce di stupire, e cioè come nel presente dibattito politico in cui è immerso il nostro paese non affiori quasi mai un concetto fondamentale: il ruolo della tecnologia (e della scienza che ci sta dietro) nel cambiare i destini della società.»

Insomma, nei discorsi della politica - alla televisione, alla radio, sui giornali - la grande assente è proprio la tecnologia, nonostante essa giochi un ruolo decisivo nel modificare e nel plasmare l'organizzazione sociale. Chiarisce ulteriormente il nostro autore:

«Lo straordinario aumento dell'efficienza produttiva degli ultimi due secoli ha dato origine alle attuali società industriali avanzate, che però oggi in un mondo globalizzato sono obbligate a essere sempre più competitive (e quindi innovative) se vogliono mantenere le posizioni acquisite. Se si ascoltano i dibattiti politici, tutto questo sembra non esistere: è come se i posti di lavoro, il reddito, il welfare dipendessero da decisioni prese dal governo, da leggi approvate dal parlamento, dai risultati elettorali, dalla formazione di nuove maggioranze ecc»

Un mondo, quello della cultura e dell'informazione, troppo sbilanciato sul versante letterario e 'umanistico' e colpevole di trascurare - secondo il nostro - i temi e le idee della scienza e, soprattutto, della tecnologia, così importanti per orientare le scelte sociali ed economiche. In un'intervista del 1988 sulle 'due culture' di Snow dichiara:

«Tutto il progresso tecnico-scientifico (se vogliamo attribuire al termine progresso una valenza positiva, e sovente non ce l'ha) si può considerare come un amplificatore; qualcosa che permette di correre piu in fretta, attraverso i trasporti, di vedere più lontano, attraverso la radio e la televisione, di costruire di più. Ma ma anche di distruggere di più. E' come Prometeo che ci ha dato il fuoco: non si può accusare il fuoco se i fiammiferi vengono dati in mano a dei bambini che danno fuoco alla casa. Quindi c'e un problema di controllo dell'uso di queste cose. Proprio per questo occorre una cultura che sia in grado di capire il proprio tempo e di gestirlo

Una cultura al passo con il proprio tempo, attenta alle innovazioni della tecnologia, impegnata a farne oggetto di costante e approfondita riflessione, anche e soprattutto filosofica.

L'interesse del nostro per questo tema risale (addirittura) al 1975, anno della pubblicazione di un suo straordinario lavoro - per molti aspetti ancora attuale - presso l'editore Garzanti. Si leggeva in copertina (vedi immagine):

«le spinte provocate dall'immersione di tecnologie nella società producono profondi cambiamenti che la cultura non riesce più a capire e a orientare. Essa non li sa più "leggere" nè "scrivere"»


Altrettanto efficace è la sintesi nella quarta di copertina:

«"Un corpo immerso in un fluido riceve una spinta dal basso verso l'alto uguale al peso del fluido spostato". Il vecchio principio di Archimede non si applica soltanto ai fluidi o ai gas, ma anche alle società umane; continuamente certi "corpi" vengono immersi nella vita economica, politica, sociale, provocando automaticamente una serie di "spinte" che la nostra cultura non sembra più essere in grado di prevedere e di controbilanciare. Sempre più utilizziamo straordinari mezzi tecnologici per modificare certi equilibri e sempre meno siamo in grado di adattarci dal punto di vista educativo, politico, morale, economico, manageriale e anche tecnologico (cioè culturale in sendo lato). (..) La nostra cultura, ancora espressione di una società contadina e largamente pre-scientifica, è chiamata a compiere un grande sforzo di immaginazione se vuole ritrovare quel ruolo di leader che le compete (e che è indispensabile per grstire uno sviluppo che ha ormai superato il livello di guardia). E' necessario meritare culturalmente il mondo tecnologico in cui viviamo. Altrimenti diventeremo sempre più come scimmie nella stanza dei bottoni.»

L'immagine delle scimmie nella stanza dei bottoni è di quelle davvero efficaci, una tra le tante che Piero Angela - lo avevate già indovinato? - ha saputo regalare al suo pubblico di lettori e telespettatori. Quanto però questo suo pubblico, così numeroso e variegato, abbia fatto tesoro del suo accorato invito e abbia cercato di meritare il mondo tecnologico con il quale (e nel quale) sempre di più si trovava a vivere è difficile dirlo. La mia sensazione, e certamente anche quella di Angela a vedere quello che scrive, è che la situazione denunciata nel '75 non sia tanto migliorata:

«Nella tradizione italiana la cultura scientifica ha conosciuto alti e bassi, ma è rimasta sostanzialmente marginale. Nel senso che non si è mai tradotta in cultura diffusa, malgrado gli sforzi di tanti illustri scienziati e filosofi della scienza. Nel nostro paese è la cultura “classica” a essere rimasta il pilastro della conoscenza, il punto di riferimento intellettuale per la comprensione del mondo e dell‟uomo. (...) Ma quello che è più grave è che anche la cultura tecnologica non trova modo di esprimersi: e questo sta creando danni molto più seri. Infatti non capire il ruolo “filosofico” che svolge la tecnologia nella trasformazione della società e della condizione umana (e la profonda azione trasformatrice che ha anche nella politica e nella stessa cultura) significa non riuscire a “leggere” il proprio tempo. E se non si riesce a leggere il proprio tempo non si può neanche “scriverci” sopra: ma in queste condizioni diventa difficile per una “Cultura” svolgere quel ruolo di guida che è indispensabile per una società moderna.» (A cosa serve la politica?, Mondadori, 2011; dallo stesso volume è tratta la prima citazione riportata)

(Piero Angela)

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l'intervista citata nel testo si può vedere e ascoltare per intero al seguente indirizzo (ne vale la pena):
http://www.scuola.rai.it/articoli/charles-percy-snow-le-due-culture-letture-dautore/3240/default.aspx


lunedì 21 luglio 2014

Civiltà delle Macchine (e del Miracolo)



Non mi è ancora capitato di sfogliare un numero della rivista Civiltà delle Macchine, almeno non uno dei primi numeri, quelli pubblicati sotto la direzione di Leonardo Sinisgalli, ricordato a volte come il poeta ingegnere e associato addirittura al grande Leonardo da Vinci per la sua straordinaria versatilità. Nell'attesa che (mi) capiti la buona occasione è però possibile sfogliarli in maniera virtuale grazie allo straordinario portale dell' Internet Culturale; è possibile sfogliarli ma anche scaricarli in formato PDF, magari per una stampa in formato A3.

(particolare da 'Ritratto di Sinisgalli',
di Maria Padula, olio su tavola, 70X50)


<Nessun numero della Rivista finì mai nel cestino: la maggior parte degli abbonati (si stampavano 10 mila copie spedite in omaggio in tutto il mondo ai delegati, ai corrispondenti, ai soci, ai clienti delle Aziende del Gruppo) faceva rilegare i sei numeri annuali della pubblicazione. La facciata, vale a dire la copertina, ebbe cure particolari. In genere veniva confezionata da noi in redazione. Ce ne furono alcune firmate da Burri, da Kline, da Mathieu. Le più originali anticiparono il Concettualismo.>

La 'Rivista' è naturalmente Civiltà delle Macchine, le 'Aziende del Gruppo' sono quelle del gruppo Finmeccanica (vedi foto qui sotto), e il racconto - tratto da un articolo apparso sul quotidiano il Mattino del giugno 1978 - è dello stesso Sinisgalli che diresse la rivista dalla fondazione fino ai primi due numeri del 1958 per un totale di trentuno uscite.


A valorizzare e a rendere meglio accessibile quella straordinaria stagione culturale ci hanno pensato alcuni studiosi legati al Centro Pristem dell'Università "Bocconi" di Milano (l'acronimo P.RI.ST.EM. sta a indicare "Progetto Ricerche Storiche E Metodologiche") realizzando una ricca antologia degli articoli di CdM (direzione Sinisgalli). Il volume, uscito in prima edizione nel febbraio 2014 nella collana 'i libri del PRISTEM' grazie al contributo della Fondazione Leonardo Sinisgalli (http://www.fondazionesinisgalli.eu/), è pubblicato da Egea e ha come titolo "Civiltà del Miracolo".


Il libro, di quasi 500 pagine, è particolarmente robusto: può essere molto adatto per una lettura estiva...

cito infine dall'introduzione: <(...) è ovviamente innegabile il vantaggio che a Sinisgalli derivava dal fatto di essere tra i pochi ad avere una solida preparazione scientifica oltre a un’acuta sensibilità poetica ed estetica. Grazie a questo, era in grado di dialogare con competenza con poeti, filosofi, pittori, architetti, ingegneri, cibernetici, economisti commissionando loro gli articoli più significativi per la rivista. Nello stesso tempo, per molti di questi autori, l’invito di Sinisgalli costituì la molla verso un nuovo modo di concepire interessanti e stimolanti aperture culturali e di accettare come naturale quella osmosi tra arte e scienza, tecnica e fantasia che formò il substrato su cui si crearono le premesse del miracolo economico italiano.>

lunedì 14 luglio 2014

natura (e filosofia) della tecnologia


Che i filosofi si interessino alla scienza non è certo una novità. Che questo avvenga anche per la tecnologia è forse un po' meno risaputo, anche se opere di grande successo e diffusione come "Psiche e techne" del filosofo Umberto Galimberti - utilzzata tra l'altro come fonte, insieme ad altre, per la recente prova di maturità - hanno in parte modificato questa percezione. Fatto sta che pratica scientifica e pratica tecnologica sono state (in passato) e sono (tuttora) al centro delle osservazioni e delle riflessioni di molti filosofi.


In questa schiera di studiosi e di filosofi occupa un posto di primaria importanza il grande Ludovico Geymonat (1908-1991), della cui vicenda umana e professionale il dizionario biografico Treccani offre un eccellente saggio.

Vi si legge infatti:
< Negli ultimi scritti il Geymonat elaborava la nozione di patrimonio scientifico tecnologico, che configurava un'idea di scienza sotto il profilo diacronico, come sistema fluido e in sviluppo e tuttavia unitario: "una struttura che si presenta al contempo come multipla e unitaria: multipla perché generata da tante acquisizioni scientifiche e tecniche fra di loro distinte, unitaria perché costruita dall'intreccio di queste acquisizioni, non dal semplice accostamento di esse, prese ciascuna nella sua singolarità" (Scienza e realismo, p. 51). >

(Ludovico Geymonat
dal sito http://www.sism.unito.it/)


Girolamo De Liguori, autore del saggio sul 'biografico' Treccani, illustra molto bene la progressiva attenzione riservata da Geymonat alla sfera sociale e politica, ritenuta un orizzonte imprescindibile per una piena comprensione dell'impresa scientifico tecnologica:

< La storicità strutturale della scienza e l'esame del patrimonio scientifico-tecnologico procedono insieme nella riflessione filosofica e scientifica compiuta dal Geymonat negli ultimi anni, coinvolgendo in pieno la sfera sociopolitica, cui da sempre il Geymonat aveva posto attenzione ma che era tuttavia rimasta separata dal suo lavoro propriamente epistemologico. La politica fu per lui passione forte e, quanto quella per la scienza, impegno di vita. E nell'ultimo periodo, nel clima mutato dominato dall'idea della crisi della ragione e da una diversa immagine della scienza entro gli indirizzi postpositivisti (K. Popper, tra gli altri), egli mirò a interpretare l'impresa scientifica in tutta la sua complessità teoretica, tecnologica e sociale. >

(Giulio Giorello)

Giulio Giorello - allievo di Geymonat - condivide con il maestro l'interesse per l'impresa scientifica tecnologica. Scrive in un suo recente contributo che accompagna (insieme a quelli di altri autori) l'ultima edizione italiana del famoso libro di Charles P. Snow "Le due culture":

< [Ludovico Geymonat] Esortava soprattutto noi “giovani filosofi” a cercare (senza boria) “la filosofia nelle pieghe della scienza” e disprezzava l’eccessivo timore degli “scandali” prodotti da scienza e tecnologia. Più ricordo le sue parole, più sono dell’opinione che avesse ragione. Al contrario che nelle religioni positive, nella scienza lo scandalo è fonte di vita. Cosa c’è di meglio per qualsiasi creazione dello spirito umano che venire utilizzata, contestata, magari stravolta in un dibattito (come è appunto quello scientifico) in cui in linea di principio nessuna opinione è immune da critica o revisione? L’ospitalità che la scienza offre a qualsiasi “straniero” (ricordiamoci delle parole di Milton) è di questo tipo. Non c’è miglior rispetto che quello che prende forma nelle modalità del conflitto. >

E ancora più recentemente, sempre con riferimento agli insegnamenti di Geymonat, scrive sempre Giulio Giorello:

< Negli anni Ottanta del secolo scorso, Geymonat, nel suo Lineamenti di filosofia della scienza (1985), invitava i giovani studiosi di filosofia a cercarla «tra le pieghe della scienza». Non si trattava tanto di indicare le regole del metodo, come avevano fatto i tradizionali approcci razionalistico ed empiristico, quanto di sviscerare la novità filosofica che emergeva dalle recenti conquiste scientifiche. In quell’epoca Geymonat aveva in mente soprattutto la lezione della fisica novecentesca – relatività e quanti in particolare – ma non dimenticava l’importanza della rivoluzione evoluzionistica, iniziatasi con Darwin e coronata nel 1953 dalla scoperta della struttura del DNA (e le conseguenti ricadute biotecnologiche). Infine, Geymonat non dimenticava nemmeno le rivoluzioni nel campo della logica e della matematica, in particolare con le ricadute nella nuova scienza dell’informazione.
La filosofia della scienza è dunque qualcosa che non può prescindere dalla pratica scientifica e dalle stesse realizzazioni della tecnologia. > (Giorello, Epistemologia e filosofia della scienza, in Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 4:2 -2013)

Si coglie, da questi pochi accenni, un crescente interesse per le dinamiche storiche e sociali dell'impresa tecnologica e scientifica. Che ritorna in un interessante articolo del 4 luglio scorso, pubblicato sul Corriere, in cui Giorello presenta e recensisce il bel libro di Luigi Berlinguer (con Carla Guetti) di cui ci siamo occupati in un nostro post precedente; scrive Giorello:

<E non ci sono solo le tecnologie digitali. Berlinguer (...) ricorre allo splendido La natura della tecnologia di W. Brian Arthur (traduzione di Davide Fassio, Codice edizioni, 2011 - qui si possono leggere le prime pagine), che sottolinea come la tecnologia sia un tratto dell'evoluzione culturale analogo al processo per cui l'evoluzione darwiniana consente che organi specializzati in una certa funzione vengano poi impiegati con successo in un'altra. Come le ali degli uccelli, che originariamente costituivano un regolatore dell'equilibrio termico, ma poi dovevano venire utilizzate per spiccare il volo! Ci sono vicende affascinanti di innovatori tecnologici non meno «astuti» della natura: come quella di Frank Whittle, che negli anni Trenta per il volo ad alta quota escogitò un congegno che riprendeva la vecchia idea della turbina a gas, ma per produrre un «getto propellente» invece di azionare l'usuale elica.>

(W. Brian Arthur)

Lo studio della tecnologia, delle sue dinamiche, dei suoi processi storici e sociologici - sembra suggerire Giorello - prepara e introduce allo studio della filosofia, la quale non può che muoversi - anche e forse particolarmente - «tra le sue pieghe», per riprendere l'espressione di Geymonat. E a trarre vantaggio da questa rinnovata attenzione alla 'natura della tecnologia' - spiega Giorello in linea con le idee di Berlinguer - potrebbe essere la stessa organizzazione scolastica:

<Ritrovare nella scuola la dimensione storica dell'ingegneria avrebbe un valore esemplare, non solo per le menti dei giovani, ma per le modalità di organizzazione: queste e altre innovazioni, scrivono Berlinguer e Guetti, finirebbero col cambiare i tempi e gli spazi dell'insegnamento. >



Che dire. I fautori dell'educazione tecnologica e del suo auspicabile incremento nel percorso formativo dei nostri giovani un 'alleato' del calibro di Giulio Giorello forse non se lo aspettavano.
Ce ne rallegriamo.

giovedì 26 giugno 2014

guardie (analogiche) e ladri (digitali)

Avendo dedicato il mio post precedente al "salto culturale" auspicato da Luigi Berlinguer (e da Arnold Pacey molto prima di lui) per imparare a utilizzare, gestire e dominare la tecnologia, mi ha molto colpito il riferimento alle idee sulla tecnologia di Giuseppe Ungaretti, citato molto a proposito da un bell'articolo di Luca De Biase, pubblicato sul Sole 24 Ore dello scorso 19 giugno, all'indomani della prova di italiano dell'esame di maturità.


(Il poeta Ungaretti all'Italsider negli anni Sessanta
da http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it)

Corrono i primi anni 50, inizia la pubblicazione la rivista "Civiltà delle macchine" sotto la direzione di Leonardo Sinisgalli, e nel primo numero della rivista (era il gennaio del 1953 per la precisione) Ungaretti viene invitato a svolgere qualche riflessione suggerita "dal  progresso moderno, irrefrenabile, della macchina".

(il primo numero di Civiltà delle Macchine - gennaio 1953
da http://www.internetculturale.it/)

Ne scaturisce un testo straordinario, sotto forma di lettera all'amico Sinisgalli direttore della rivista. La lettera si conclude con queste righe:

"Il volo, l'apparizione delle cose assenti, la parola udita nel medesimo suono casuale di chi l'ha profferita senza ostacoli di distanza di tempo e di luogo, gli abissi marini percorsi, il sasso che racchiude tanta forza da mandare in fumo in un baleno un continente, tutte le favolose meraviglie da Mille e una notte, e molte altre, si sono avverate, la macchina le avvera. Hanno cessato d'essere slanci nell'impossibile della fantasia e del sentimento, sogni, simboli della sconfinata libertà della poesia. Sono divenuti effetti di strumenti foggiati dall'uomo. Come l'uomo potrà risentirsi con essi strumenti grande, traendo forza solo dalla sua debole carne? - Forza morale! - La rivista che inizia con questo numero le sue pubblicazioni, e che tu dirigi, si propone di richiamare l'attenzione dei lettori anche sulle facoltà strabilianti d'innovamento estetico della macchina. Vorrei anche che essa richiamasse l'attenzione su un altro ordine di problemi: i problemi legati all'aspirazione umana di giustizia e libertà. Come farà l'uomo per non essere disumanizzato dalla macchina, per dominarla, per renderla moralmente arma di progresso?"


Luca De Biase si era già interessato a questa formidabile lettera del "visionario" Ungaretti in un suo post di qualche anno fa. Ora la riprende, sottolineandone l'attualità e facendo riferimento all'auspicato salto culturale:

"Gli elaboratori, suggeriva Giuseppe Ungaretti, sono destinati a diventare talmente potenti da superare l'immaginazione umana. E quando avverrà, diceva, gli uomini saranno tentati di imparare a pensare come i computer: a meno che non sappiano fare un grande salto di qualità culturale ed etico."
(di Luca De Biase - Continua a leggere su IlSole24ORE.com)

Ma la conclusione dell'articolo di De Biase è quella più interessante:
"Certo, anche l'idea di progresso sta cambiando in quest'epoca di grande trasformazione. Le visioni e le intuizioni che tentano di interpretarla sono preziose. Ed è però necessario che si incarnino nell'innovazione fondamentale, quella che si dedica alla formazione. Questione decisiva: per sviluppare una società consapevole dei rischi che si corrono se ci si limita a usare la tecnologia senza comprenderla e, soprattutto, per alimentare di idee una popolazione che sappia essere protagonista dell'innovazione, che sappia riconoscere le gigantesche possibilità che il presente offre a chi sia pronto a vederle e a coglierle. Occorre il salto di qualità culturale ed educativo immaginato da Ungaretti. La scuola è chiamata a svolgere un compito essenziale."
Per l'Autore l'innovazione della società, incalzata dal rapido evolversi della tecnologia, non può che accompagnarsi e fondersi con l'innovazione della scuola e della formazione. Senza questa mutazione, questa 'incarnazione' della tecnologia nelle pratiche e nell'organizzazione scolastica si rischia di privare i giovani di una reale comprensione dela tecnica e della tecnologia, rendendoli utilizzatori ottusi e inconsapevoli di tutto quello che il mercato propone e impone; inoltre si rischia di esiliare l'innovazione dal mondo della scuola, e di rinunciare all'educazione di quel pensiero analitico e critico che risulta indispensabile per dominare la tecnologia.


D'accordissimo. Faccio invece più fatica a seguire De Biase nella sua simpatia per le idee di Dianora Bardi, molto amplificate in questi giorni dalla scelta di un suo brano tra i documenti proposti per il tema della maturità di quest'anno. Ecco il brano:

«Per molto tempo al centro dell'attenzione sono state le tecnologie e gli interrogativi che si portano dietro: «Meglio i tablet o i netbook?», «Android, iOs o Windows?», seguiti da domande sempre più dettagliate «Quanto costano, come si usano, quali app…». Intanto i docenti hanno visto le classi invase da Lim, proiettori interattivi, pc, registri elettronici o tablet, senza riuscire a comprendere quale ruolo avrebbero dovuto assumere, soprattutto di fronte a ragazzi tecnologicamente avanzati che li guardavano con grandi speranze e aspettative. Per gli studenti si apre una grande opportunità: finalmente nessuno proibisce più di andare in internet, di comunicare tramite chat, di prendere appunti in quaderni digitali o leggere libri elettronici.»
(http://nova.ilsole24ore.com/frontiere/la-tecnologia-da-sola-non-fa-scuola)

In queste riflessioni forse un po' frettolose non mi sembra di leggere, come invece fa De Biase, con lodevole generosità peraltro, "le grandi aspettative di miglioramento didattico connesse all'innovazione", oppure "le gigantesche opportunità di riprogettazione dell'eperienza scolastica per adattarla alle sfide della contemporaneità". L'analisi mi pare più fragile: gli studenti sono presentati  quasi come prigionieri digitali in un mondo - la scuola - dominato da carcerieri analogici con poco o nulla da dire o da suggerire, intenti per lo più a proibire e punire. La questione è più variegata, alle luci si accompagnano molte ombre. Per dirne una, ma torneremo con più calma su queste questioni, bisognerà intendersi su che cosa significhi "comunicare", "prendere appunti", "leggere"; facendo molta attenzione alle insidie dell'ovvio, per citare il titolo di un prezioso lavoro di Maria Ranieri su questi argomenti.

In conclusione, senza nulla togliere alla Bardi e alle sue certezze, preferisco di molto gli interrogativi di Ungaretti. E voi che ne dite?

lunedì 2 giugno 2014

un salto culturale

Trent'anni sono una vita. Ma le buone idee possono avere una lunga incubazione, e dare poi frutto in modo inaspettato.

Era il 1983 quando Arnold Pacey, giovane studioso di scienze agrarie e ambientali, diede alle stampe (per MIT Press) un suo lavoro intitolato 'The culture o technology' 



Il suo lavoro fu tradotto in italiano e uscì per Editori Riuniti qualche anno dopo con il titolo, chissà perchè modificato, "Vivere con la tecnologia" (http://sol.unibo.it/SebinaOpac/Opac?action=search&thNomeDocumento=UBO0451799T), con la prefazione di Antonio Ruberti. Lo stesso Ruberti, in un suo intervento di poco precedente alla pubblicazione, spiegava il valore del pioneristico lavoro di Pacey:

<<L'obiettivo del libro è condensato in questo giudizio: "Nelle società avanzate del mondo, con le loro economie di mercato, le istituzioni aperte e la democrazia politica, un tema dominante, il tema del progresso, viene trattato in senso unidirezionale, nel senso di uno sviluppo lineare, dell'implicita e spesso esplicita fede nelle possibilità illimitate di espansione quantitativa. Il nuovo tema che potrebbe prendere il suo posto... non è la negazione della crescita... ma quello che mi sembra un passo avanti, cioè uno sviluppo qualitativo piuttosto che quantitativo".>>


Proseguiva Ruberti, parafrasando Pacey: <<In rapporto a questo obiettivo è bene non limitarsi ad identificare la tecnologia con i suoi aspetti tecnici (macchine, attività di produzione, ecc.) e non accettare la separazione tra produzione ed uso. Appare utile perciò, ispirandosi alla differenza tra "scienza medica" (aspetti strettamente scientifici e tecnici) e "pratica medica" (attività terapeutica nel suo insieme, acquisizioni tecniche, organizzazione, aspetti culturali con scale di valori e codice etico della professione), introdurre il concetto di "pratica tecnologica" come < l'applicazione di conoscenze scientifiche e di altre conoscenze ai fini pratici mediante sistemi articolati coinvolgenti persone e organizzazioni, cose viventi e macchine >. E' uno sforzo per collegare produzione e utilizzazione, tenere insieme aspetti tecnici, organizzativi e culturali. >>

(Antonio Ruberti)

The culture o technology è rimasto l'unico lavoro di Pacey, che io sappia, tradotto in italiano e pubblicato in Italia (forse in un'unica edizione, ma non ne sono sicuro), nonostante l'autore abbia proseguito il suo lavoro pubblicando diversi altri studi intorno agli stessi temi. Un grande merito di Pacey è stato quello di mettere in evidenza, tra i primi, la dimensione culturale dell'impresa tecnologica, contribuendo ad arricchire e a precisare la comprensione stessa del fenomeno tecnologico. E non ricorrendo a categorie concettuali di derivazione aristotelica o comunque di tipo razionalistico, ma partendo da un'acuta osservazione delle effettive 'pratiche tecnologiche', riconoscibili nelle più diverse culture e alle più diverse latitudini. Lo stesso titolo (originale) del suo lavoro è emblematico: suona come una affermazione provocatoria, come la rivendicazione di un dominio culturale per un ambito di conoscenze e di saperi - quelli della Tecnologia, appunto -  tradizionalmente relegati alla semplice sfera dell'applicazione.

Passano gli anni senza che le idee di Pacey lascino segni evidenti, almeno in Italia. Arriva il 2005 e la rivista del CNR "TD - Tecnologie Didattiche" dedica un intero numero al tema della cultura nell'attuale società della conoscenza ("quale cultura nella società della conoscenza") con interventi di alcuni 'saggi' tra cui Silvano Tagliagambe, Vittorio Campione, Roberto Maragliano, Mario Fierli. E' proprio Mario Fierli a firmare un articolo denso, interessante e un po' controcorrente dal titolo "La cultura della tecnologia". Nel testo - che si pone domande fondamentali e ancora attuali come: "Cosa è il sapere tecnologico?", "Come viene percepito e vissuto?", "Qual è il suo posto nell'educazione?" -  Fierli rilancia una visione della tecnologia di ampio respiro, non riducibile al solo crinale delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, e riprende esplicitamente il lavoro di Pacey di vent'anni prima.

(Mario Fierli)

Nel definire i tre ambiti di una cultura della tecnologia Fierli riprende, leggermente semplificato, lo schema di Pacey. E spiega: <<una cultura della tecnologia si riferisce ad almeno tre ambiti fondamentali: il sapere tecnologico, il contesto sociale della tecnologia, le immagini e i valori della tecnologia; i tre ambiti sono strettamente collegati, in modo che le pratiche e i saperi relativi ad un ambito non si comprendono senza collegarli alle pratiche e ai saperi degli altri due.>>


Fierli prosegue il suo lavoro riproponendo una distinzione classica tra tre aree concettuali fondamentali della tecnologia, quelle relative a (A) materia, a (B) energia e a (C) informazione/comunicazione. Classificazione che, nella sua schematicità, ha il pregio di circoscrivere il raggio d'azione delle TIC (tecnologie dell'informazione e della comunicazione) evitando il rischio, molto presente negli ambienti formativi, che esse - soprattutto nella loro accezione (riduttiva) di tecnologie educative - occupino l'intero campo semantico della Tecnologia. Inoltre l'autore affronta, seppur in modo rapido, due questioni importanti relative al significato dei termini in gioco. La prima si riferisce al significato del termine tecnologia: <<Da sempre è aperto un dibattito, anzi una disputa, sul significato dei termini tecnica e tecnologia. Abbastanza facile è definire la tecnica come un insieme di mezzi e processi rivolti a fini pratici. Fra questi fini c’è la produzione di oggetti, ma anche la modifica di sistemi naturali e la creazione di sistemi organizzativi. Il termine tecnologia è invece usato con significati diversi, ma soprattutto due: a) sapere (concetti, regole, metodi, teorie, modelli) che serve per condurre attività tecniche e quindi “teoria” della tecnica, b) categoria di oggetti e di soluzioni pratiche che si basano sugli stessi concetti e metodi.>> La seconda questione si riferisce all'uso del singolare oppure del plurale del termine tecnologia: <<Le considerazioni di questo contributo sono di tipo generale e quindi si parla di tecnologia senza ulteriori distinzioni. In realtà appena si voglia scendere nel concreto di qualsiasi operazione formativa è necessario parlare di tecnologie o aree tecnologiche. La classificazione in aree tecnologiche è arbitraria e dipende dal contesto e dai fini per cui si adotta. In particolare può cambiare molto il livello di specificazione e quindi la vastità delle aree considerate>>

La natura "federale" del sapere tecnologico, così come i rapporti tra Tecnologia e Scienza, hanno sempre rappresentato problemi non banali sul piano logico ed epistemologico. Scriveva qualche anno fa Ferdinando Riotta, un altro studioso di tecnologia: <<La disciplina Tecnologia esiste e ha una propria identità, altrimenti non esisterebbero facoltà universitarie come Ingegneria, Architettura, Agraria, ecc.; si tratta di ragionare sul modo di trasformarla in una materia scolastica. Per far questo proviamo a capitalizzare le esperienze di altre discipline: sappiamo tutti che la Scienza, al singolare, è metodo, indagine, sperimentazione, logica … mentre le Scienze, al plurale sono “ambiti” come Biologia, Chimica, Fisica, Etologia, ecc. Cosa possiamo dire della Tecnologia e delle Tecnologie? Perché le Scienze sono insegnate al plurale con la Scienza in dimensione trasversale e noi insegniamo nominalmente al singolare pur se i libri di testo sono pieni praticamente solo del plurale?>>. Domande alle quali in altra sede ho tentato di rispondere.


Lo stesso tema della 'anomalia disciplinare' della tecnologia ritorna nell'ultimo libro di Luigi Berlinguer, ex ministro dell'Istruzione, che a pagina 155 del suo 'Ri-creazione' scrive, a proposito del sapere tecnologico: <<A ben vedere, non si tratta di una disciplina, ma di un insieme di ambiti disciplinari interrelati tra loro, appunto di cultura, di cui ciascuno deve sentirsi partecipe, anche se in modo diverso e coerente rispetto alle proprie personalità e attività.>> Alla scuola spetterebbe il compito di preparare e alimentare l'incontro con questa cultura, a partire dalle sue manifestazioni empiriche e materiali ma senza fermarsi ad esse, e cogliendole come spunti e occasioni per un lavoro più approfondito, analitico e critico, di matrice culturale. Prosegue infatti l'autore: <<In tale ottica la scuola rappresenta l'ambiente congeniale dove iniziare a elaborare una visione culturale del'universo tecnologico, attraverso un processo educativo che, partendo dall'uso delle tecnologie, arrivi a penetrarne gli elementi più squisitamente teorici o speculativi, tramite uno studio interdiciplinare posto tra tradizione e innovazione.>>

(Luigi Berlinguer)

Berlinguer riprende, senza citarla esplicitamente, la classificazione proposta da Fierli nel suo articolo su TD, ancora una volta (sono passati quasi dieci anni) per mitigare l'invadenza in ambito formativo delle TIC nel più ampio e articolato panorama tecnologico: <<Va detto, però, - scrive a pagina 154 - che il vasto panorama delle tecnologie interessa non solo quelle informatiche ma anche quelle legate per esempio alla materia o all'energia: tutte pervadono dinamicamente il contesto in cui viviamo, lavoriamo, studiamo, modificando in profondità buona parte della nostra vita, offrendo grandi opportuntà e ponendo molti problemi.>> Berlinguer mostra di considerare insufficiente il riconoscimento del valore della cultura della tecnologia e sente il bisogno di riaffermarlo con nettezza, dedicandole l'intero capitolo ottavo del suo saggio, intitolato appunto 'la cultura della tecnologia'. L'importanza della cultura tecnologica viene ribadita anche in rapporto all'indubbio valore della cultura scientifica, ad essa complementare, soprattutto per quanto attiene la sfera dell'azione, cioè della valutazione critica e della decisione su concrete problematiche di carattere sociale, civile, etico; scrive infatti: <<Da questo punto di vista il rapporto tra uomo e mondo artificiale diventa altrettanto importante quanto la relazione tra uomo e mondo naturale. La capacità di saper utilizzare, gestire e dominare le varie tecnologie e tecniche richiede un salto culturale da parte della società della conoscenza, a cominciare proprio dall'istruzione, chiamata a interagire con l'incremento della tecnologia e a rispondere alle nuove domande poste dall'accelerazione della tecnica per formare uomini e donne liberi e responsabili nell'agire.>>


Il "salto culturale", imposto dall'incontro con la tecnologia, oggi auspicato da Luigi Berlinguer, ri ricollega idealmente con quella "Cultural Revolution" alla quale Arnold Pacey intitolava il capitolo conclusivo del suo saggio di oltre trent'anni fa. Forse oggi i tempi sono maturi.

Che ne dite?

lunedì 12 maggio 2014

cucito ergo sum

Scrittura creativa, teatro, canto corale: la scuola è popolata dai laboratori più disparati, ma di laboratori di cucito se ne vedono pochi. Eppure penso che ai bambini e ai ragazzini di oggi l'attività di taglio e cucito piacerebbe non poco, anche per l'utilizzo di macchine da cucire super-tecnologiche che hanno le carte in regola per far dimenticare, almeno per qualche tempo, tablet e smartphone vari e applicazioni connesse...


Durante l'ultimo week end, negli spazi del centro commerciale di Villanova di Castenaso si sono svolti alcui laboratori di cucito organizzati dall'associazione CucitoCafé di Bologna che è stata fondata circa tre anni fa da un gruppo di simpatici appassionati di moda e di creatività, tra cui alcuni sarti professionisti (a questo indirizzo il loro blog: http://cucitocafebo.blogspot.it/). Tra i laboratori che organizzano (leggo dal loro volantino): taglio e cucito base, costruzione e confezione della gonna, costruzione e confezione abito femminile, uncinetto, maglia, punto croce senza segreti (il mio preferito), e tanti altri. Sabato mattina, dopo lunga opera di convincimento, ho provato a portare i miei figlioli più piccoli al laboratorio "dolcetti di stoffa" (vedi foto sotto). Superato il primo momento di spaesamento si sono appassionati e, guidati da mani e voci esperte, hanno portato a termine il loro coloratissimo e soffice dolcetto (subito adibito a "regalino-per-la-festa-della-mamma-2014").

E' un peccato che a scuola (e dove se no?) sia sempre più raro il poter imparare i rudimenti del taglio e del cucito, maschietti e femminucce senza distinzioni ovviamente. Il valore formativo delle attività manuali, in particolare di quelle di confezionamento di oggetti di utilità pratica effettiva (un abito, una gonna, un astuccio, ecc), va oggi riscoperto pena una perdita di contatto con materiali e strumenti reali (e non solo virtuali!) le cui conseguenze negative sono sempre più evidenti. Non ha tutti i torti Gabriella Gai quando scrive nel suo vivace blog:

"Non esagero nel dire che la scomparsa delle Applicazioni Tecniche (maschili e femminili), una materia molto divertente che si insegnava nelle scuole medie inferiori ha prodotto nelle generazioni successive alla mia una quantità di giovani incapaci di utilizzare le mani per fare qualsiasi cosa sia utile a tamponare un’emergenza. Cucire, nelle Applicazioni Tecniche Femminili era una di queste.


Non tutte le ragazzine lo facevano volentieri, ma alla fine tutte eravamo in grado di attaccare un bottone, ricucire un orlo, un bottone automatico, riparare una cucitura aperta e tutto questo con il semplice uso di ago e filo."

D'altra parte è interessante come lo stesso Dewey (si, sempre il nostro John Dewey, già citato in altri post di questo blog; converrà farci l'abitudine) nel suo ineffabile "Scuola e Società" (1899) si immaginava l'aula di cucito come uno degli spazi della scuola ideale alla quale stava lavorando. Dopo avere auspicato (vedi approfondimento in fondo), in vista della realizzazione di un artefatto o di un'opera d'arte, una perfetta fusione tra pensiero e organi di esecuzione (o di espressione), scrive (traduzione mia):

"Consideriamo l'aula di cucito come un'esempio di una sintesi del genere. Mi riferisco ad una scuola futura, quella che speriamo un giorno di avere. La cosa essenziale in quest'aula è il fatto di essere un laboratorio, fatto di cose concrete come cucire, filare, e tessere. I bambini entrano in contatto diretto con i materiali, con i diversi tessuti di seta, di cotone, di lino, e di lana. Ogni informazione si presenta intrinsecamente collegata a quei materiali; alla loro provenienza, alla loro storia, al loro impiego per particolari usi, e alle macchine di vario tipo utilizzate per lavorare i materiali grezzi.

Il mestiere si manifesta nell'affrontare i problemi via via incontrati, che sono sia teorici che pratici. E la cultura da dove trae origine? In parte dal vedere tutte queste cose riflesse mediante le loro effettive condizioni scientifiche e colleganze storiche, attraverso le quali il bambino impara a considerarle come conquiste della tecnica, come pensieri condensati in azione; e in parte per effetto dell'introduzione - nella stessa aula - dell'idea di arte."


Interessante no?
(Indovinate quali sono i miei figlioli)

- - -
per approfondire:

La citazione di Dewey è preceduta dal seguente brano (traduzione mia):
"Tutta l'arte coinvolge gli organi del corpo - occhio e mano, orecchio e voce; eppure è di più rispetto alla mera abilità tecnica presupposta dagli organi di espressione. Essa infatti implica una visione, un pensiero, una rielaborazione spirituale della realtà; eppure non si esaurisce in un qualche insieme di idee fini a sè stesse. Essa è invece una fusione vitale tra il pensiero e lo strumento di espressione. Questa fusione si può evocare efficacemente col dire che nella scuola ideale l'opera d'arte si può considerare la stessa dell'officina, ma come restituita all'azione dopo essere passata attravesro gli alambicchi della biblioteca e del museo." (The School and Society, 1899)

domenica 4 maggio 2014

la scuola e il lavoro

L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. Il primo articolo della Costituzione Italiana venne approvato nella sua forma definitiva e attuale il 22 marzo del 1947, qualche mese prima dell'approvazione del documento complessivo, avvenuta il 22 dicembre dello stesso anno.

Il chiaro e perentorio riferimento al lavoro seguiva di un paio di anni un altro forte richiamo a questo valore fondamentale, relativo in questo caso alla politica scolastica della nascente repubblica. Nei programmi della scuola elementare approvati con DM il 9 febbraio 1945 e successivmante tradotti nel Decreto luogotenenziale n. 459 del 24 maggio 1945 ("programmi per le scuole elementari materne"), liberamente consultabili sul sito della Gazzetta Ufficiale storica, il lavoro rappresenta una delle discipline o materie di insegnamento.

"Il lavoro - si legge infatti nel nuovo documento - è fonte di vita morale e di benessere economico e deve avere nell'insegnamento un'adeguata importanza. E' necessario che le nuove generazioni riconoscano nel lavoro la principale risorsa della nostra economia e il mezzo più efficace per la rinascita nazionale. Solo col lavoro si possono stabilire saldi e pacifici rapporti di collaborazione tra i popoli."


Il coordinamento della commissione incaricata di redigere i nuovi programmi era stato affidato dagli alleati ad un pedagogista americano amico di John Dewey, Carleton Wolsey Washburne, già noto per avere diretto il complesso scolastico sperimentale di Winnetka, sobborgo di Chicago. Per gli estensori dei nuovi programmi, il lavoro da svolgere a scuola non doveva limitarsi ad "un vacuo e disordinato dilettantismo" ma, al contrario, doveva possedere quanto più possibile le caratteristiche di una effettiva attività lavorativa. Si legge infatti nei nuovi programmi: "Nelle prime classi, tanto per i bambini che per le bambine, si partirà da un lavoro spontaneo ricco di suggestioni ricreative, per giungere gradualmente, nel corso elementare superiore, ad una autentica attività lavorativa, sempre tenendo presenti le limitate possibilità realizzative dell'alunno in rapporto all'età e ai mezzi materiali a sua disposizione. Comunque, si cercherà di conseguire in ogni lavoro un risultato di pratica utilità."


Il riferimento all'utilità pratica di ogni attività lavorativa svolta dai fanciulli si lega a quella preoccupazione di mantenere una forte unità tra teoria e pratica, tra attività intellettuale e attività manuale, che è caratteristica della visione del Dewey e che ha le sue radici in una visione alquanto critica della società americana di fine 800.


Scriveva infatti John Dewey nel famoso Scuola e Società (1915): "mentre la formazione per le professioni dell'apprendimento e della conoscenza è ritenuta cultura di un qualche tipo, o un'educazione liberale, al contrario la formazione di un meccanico, di un musicista, di un avvocato, di un dottore, di un agricoltore, di un commerciante o di un funzionario delle ferrovie è considerata meramente tecnica e professionalizzante. Le conseguenze di questa mentalità sono evidenti: la divisione tra persone "di cultura" e semplici "lavoratori", la separazione tra teoria e pratica." (p. 20 dell'edizione italiana, La Nuova Italia Editrice, traduzione mia)


Che cosa c'entra tutto questo con i problemi di oggi? C'entra, e non poco, dal momento che il dibattito sull'opportunità o meno di mettere al centro della formazione il tema del lavoro è della massima importanza e di grande attualità (si leggano ad esempio le recenti osservazioni di Claudio Gentili, vice direttore Politiche Territoriali, Innovazione e Education di Confindustria, sul Liceo Classico).

"Quello del lavoro, sia nella società sia nella generale elaborazione culturale, - scrive Lucio Guasti in un suo recente saggio sulle competenze - fu un argomento centrale per le democrazie vecchie e nuove, tale da essere inserito nei documenti fondativi della vita sociale ma anche in quelli relativi all'educazione delle nuove generazioni" (Guasti, 2012). Secondo una certa visione pedagogica, che come si è visto ha radici molto estese e motivazioni profonde, l'attenzione al tema del lavoro favorisce una maggiore affinità della formazione con le dinamiche sociali e produttive, e nello stesso tempo garantisce un apporto di sensibiltà antropologica e di umanizzazione ad ogni attività lavorativa. Credo - per dirla con Lucio Guasti - che ci rendiamo tutti conto di quanto ce ne sia bisogno, ieri come oggi.

Quello di Guasti mi pare un libro davvero prezioso. Quanto le sue tesi siano condivise o quanto meno oggetto di interesse e attenzione nell'area di Bologna lo si può in parte dedurre dal numero di copie del suo saggio attualmente disponibili nelle biblioteche del polo bolognese: una sola (guardate dove).

lunedì 21 aprile 2014

struttura e sovrastruttura


'Preparare un cibo sofisticato a casa, un piatto che contenga una storia da raccontare, un sentimento e capacità tecnica. Consumarlo insieme ad altri, in un privato allargato, mettendo il cibo al centro delle buone ragioni per ritrovarsi.'

Con queste espressioni iniziava il briefing della scorsa edizione del BMW Creative Lab. L'iniziativa, nata per volontà di BMW Italia e BMW DesignworksUSA studio di Monaco, è stata ideata per "identificare giovani talenti internazionali, che studiano e operano in Italia, e aiutarli ad acquisire il know-how dell’industria, un ingrediente fondamentale oggi quando ci si affaccia sul mondo del lavoro".

Proseguiva il briefing, nato dalla collaborazione con l'azienda Guzzini:

'Trasportarlo altrove: tra la preparazione e il consumo si crea lo spazio per questo progetto, quella relazione tra cibo e mobilità di cui si parlava all’inizio. Non si tratta qui di trasporto puramente funzionale del cibo, ma piuttosto di mettere in un unico contenitore pieno di storie e significati il cibo che abbiamo preparato, il contenitore con cui lo trasportiamo, il modo con cui lo presentiamo ai nostri amici. Un contenitore che può contenere diversi cibi. Un cibo che nasce insieme al suo contenitore. Un cibo che al tempo stesso è il suo contenitore.'

Quello del design è un fenomeno complesso, interessante. Ricco di sfumature e di sfaccettature. Fenomeno fondamentale per la nostra epoca, come testimoniano tra l'altro le numerose scuole sorte negli ultimi vent'anni e in cui si formano schiere di designer, tra le più importanti proprio in Italia. All'edizione di quest'anno del BMW Creative Lab partecipano lo IED (http://www.ied.it/), la Domus Academy (http://www.domusacademy.it) e la Scuola del Design del Politecnico di Milano (http://www.design.polimi.it/).


"...in ogni società esiste un punto nevralgico, in cui ha luogo il processo di produzione e riproduzione materiale, cioè un punto in cui, secondo le esigenze dei rapporti di produzione, vengono man mano sancite le corrispondenze tra stato di bisogno e oggetto di bisogno, tra bisogno (Bedürfnis) e fabbisogno (Bedary). Il disegno industriale, in quanto fenomeno che si situa precisamente in tale punto nevralgico, emerge come un 'fenomeno sociale totale'. Vale a dire, come appartenente a quella categoria di fenomeni che non si devono esaminare isolatamente, ma sempre in relazione ad altri fenomeni con i quali costituiscono un unico tessuto connettivo. A questa stessa categoria appartiene il fenomeno della tecnica, intimamente connesso con quello del disegno industriale."

Così scriveva Tomàs Maldonado nella voce 'Disegno Industriale' dell'Enciclopedia del Novecento (che si può leggere sul sito Treccani), facendo luce sul complicato intreccio esistente tra disegno industriale, tecnica e cultura materiale o - come nel brano che prosegue quello appena citato - sul rapporto tra strutture e sovrastrutture della società (per una più completa comprensione si può anche leggere l'importante brano di Marx, riportato in fondo al post, citato da Umberto Galimberti nel suo Psiche e Techne. L'uomo nell'età della tecnica):

"L'idealismo aveva rinchiuso la tecnica nel ghetto della produzione strutturale, ne aveva fatto cioè un fenomeno estraneo, e persino avverso, all'universo della produzione sovrastrutturale. Ma la verità è molto diversa: la tecnica è presente sia nell'esecuzione dei 'prodotti strutturali' (configurazioni oggettuali di ogni tipo), sia in quella dei 'prodotti sovrastrutturali' (configurazioni simboliche di ogni tipo). Il "pregiudizio corrente", che oppone i prodotti strutturali a quelli sovrastrutturali, i prodotti della mano (e della macchina) a quelli della testa , è definitivamente superato nel momento in cui tutti i prodotti del lavoro umano sono intesi come artefatti. Questo è il presupposto che peraltro sta alla base del concetto moderno di cultura materiale, diffuso soprattutto dagli antropologi e dagli archeologi, ma anche dagli storici. In ultima analisi, si tratta della concezione, oggi generalmente accettata, secondo cui i prodotti dell'attività tecnica umana sono sempre da considerare dei fatti di 'vita materiale', o meglio di cultura (o civiltà) materiale."

Una vita dedicata al design, quella di Maldonado, intrecciata con le vicende storiche e culturali del Novecento. L'ha raccontata Laura Curino, attrice e regista teatrale, in questo video emozionante e per noi molto interessante.



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Per approfondire:

''Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze positive materiali. L'insieme di questi rapporti costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza.'' (Marx, Per la critica dell'economia politica, 1859)

venerdì 18 aprile 2014

educazione tecnica, un riesame

Si torna a parlare di 'educazione tecnica'.

Si, perchè nella scuola media sono più di dieci anni, dalla riforma Moratti del 2004, che la vecchia espressione è andata in pensione e si parla più semplicemente di Tecnologia.

E se ne torna a parlare non in ambito scolastico, ma all'interno della cornice più ampia offerta dal nuovo Piano Strategico Metropolitano di Bologna (http://psm.bologna.it/), entrato in queste settimane in una fase particolarmente avanzata.

In particolare si è svolto qualche giorno fa un convegno che ha ottenuto una eco mediatica abbastanza ampia. Si legge sul blog del PSM:

Il convegno dal titolo “Dire, Fare, Cambiare”, svoltosi il 9 aprile scorso, nasce nell’ambito del Piano Strategico Metropolitano di Bologna come riflessione utile allo sviluppo di progetti e iniziative finalizzati alla promozione della cultura tecnica, che nel nostro paese non riceve l’importanza che merita, in rapporto ai nuovi trend economici, sociali ed educativi. L’appuntamento, oltre a presentare i diversi progetti sviluppatisi in seno al PSM sul tema dell’educazione tecnica, ha, più in generale, inquadrato ed approfondito i nuovi significati, i paradigmi e le prospettive dello sviluppo economico e del lavoro, e le sue connessioni con la cultura ed i contesti educativi.

Premetto che non ho potuto partecipare al convegno del 9 aprile, e me ne sto facendo un'idea da notizie e resoconti che trovo su internet, però la sensazione è che si parli di 'educazione tecnica' e di 'cultura tecnica' senza averne un'idea molto precisa e definita, o almeno senza preoccuparsi di darne una seppur semplice definizione. Nello stesso post citato poco sopra, peraltro anonimo (ma ormai l'anonimato su internet sembra diventato la norma, passiamo oltre), si apre con una citazione di Richard Sennet (“Tutti condividiamo pressappoco nella stessa misura le capacità grezze che ci consentono di diventare bravi artigiani; è nella motivazione e nell’aspirazione alla qualità che le strade degli uomini si dividono” - R. Sennet “L’uomo artigiano”, 2008) alla quale sembra si voglia di fatto delegare - forse un po' sbrigativamente, non vi pare? - il compito di suggerire che cosa si debba intendere per cultura o educazione tecnica, come se queste espressioni non fossero semanticamente ambigue e quindi vaghe.


Comunque prendiamo pure Sennet e andiamo avanti. Poco dopo si legge:

Due Sociologi, il Prof. Daniele Marini (dell’Università di Padova) ed il Prof. Roberto Rizza (dell’Università Bologna), hanno fornito un interessante quadro di riflessione, offrendo uno sguardo lucido ed attuale sui continui cambiamenti del lavoro e della società e sulle nuove categorie interpretative per leggere lo sviluppo futuro.

Viene da chiedersi: ma in questo 'sguardo lucido' che fine hanno fatto il 'bravo artigiano', l'aspirazione innata alla qualità, la motivazione intrinseca al ben-fare di cui parla Sennet? Ne avranno parlato i due studiosi? Andiamo a vedere le loro slides:

Slide intervento prof. Daniele Marini
Slide intervento prof. Roberto Rizza 

Che ne dite? Interessante la frase di Marini "La formazione assume una valenza etica: è l’unico appiglio cui agganciarsi per affrontare un simile contesto." (vi siete mai agganciati ad un appiglio? Io non ne sono sicuro)

Nelle slides di Rizza sembra emergere un tentativo di definizione di questa misteriosa 'cultura tecnica'; nella quarta slide si legge: "Economie esterne di tipo tangibile e intangibile fra cui spiccano le conoscenze contestuali, tacite e codificate, che rappresentano quella che potremmo definire “cultura tecnica” di un territorio, alimentata dai rapporti che si creano tra contesto produttivo locale, sistema educativo e formativo".

A voi è chiaro? A me non tanto, ma pazienza. Mi sembra invece molto chiaro, più o meno condivisibile certamente ma molto chiaro, quello che scriveva qualche mese fa Gian Carlo Vaccari a proposito della cultura tecnica:

Noi pensiamo  che la cultura tecnica comporti normalmente (anche se ci sono grandissime eccezioni!) lo studio della matematica e della fisica, o della scienza delle costruzioni o della statistica, ecc., ma queste, dal punto di vista culturale, sono dei mezzi più che dei fini. Le loro formule si possono anche dimenticare, perché ciò che conta non sono le formule, ma la struttura di pensiero che si acquisisce e il metodo che insegnano e che possono essere applicati a tanti altri ambiti: Analisi oggettiva dei problemi e delle situazioni; Mancanza di pregiudizi e di soluzioni prefabbricate; Decisioni  basate sui dati di fatto, con il massimo di documentazione possibile e guidate dalla logica; Amore per il lavoro ben fatto e ricerca continua della massima qualità; Curiosità, voglia di capire, di andare a fondo nelle cose, negli  eventi; Interesse per il nuovo, lo sconosciuto, il piacere della scoperta; Capacità di confrontarsi e disponibilità ad accettare pareri diversi dai propri; Capacità di autocritica e onestà  intellettuale.
In sostanza razionalità, pragmatismo, etica.

Insomma si ritorna fortunatamente a parlare di cultura tecnica e di educazione tecnica, anche grazie al PSM di Bologna. Ma l'impressione è che il livello del confronto possa ancora crescere, e non di poco. Che ne dite?

lunedì 14 aprile 2014

commentare (liberi di)


Da un punto di vista tecnico lasciare un commento in calce ad un articolo o ad un ‘post’ disponibile su un qualche sito internet consiste nello scrivere un testo all'interno di uno spazio a ciò destinato e successivamente premere un pulsante di conferma (“ok” oppure “pubblica” o diciture simili) che ha l'effetto di rendere il testo stabile è visibile anche da altri frequentatori del blog. 

L’azione attraverso la quale il testo del commento passa dalla fase di composizione o redazione a quella di visibilità e stabilità viene detta pubblicazione.

Di norma il commento diventa - insieme agli altri commenti relativi allo stesso articolo - parte integrante della grafica della pagina e viene presentato visivamente in modo che ne risulti immediatamente riconoscibile sia l'autore - attraverso una delle tante modalità di attribuzione dell’identità disponibili su internet - sia l'orario e la data della pubblicazione.


È importante ricordare che:

1) il testo del commento può essere redatto con un normale editor di testi e successivamente copiato/incollato all’interno dello spazio apposito per l’inserimento dei commenti, tenendo conto che solitamente le eventuali formattazioni (grassetto, sottolineato, ecc) si perdono durante la pubblicazione del commento;

2) di norma l'autore del commento può apportare integrazioni o correzioni al proprio testo anche successivamente alla sua pubblicazione pur con qualche limitazione temporale;

3) in alcuni casi l'intenzione della pubblicazione manifestata dall'autore del commento attraverso la pressione del relativo pulsante potrebbe dare inizio ad una fase intermedia detta fase di ‘moderazione’ durante la quale il commento rimane in attesa di una verifica di adeguatezza e conformità da parte di un incaricato (di solito lo stesso curatore del blog) il quale, in un tempo ragionevole, dovrà stabilire se dare effettivamente corso alla pubblicazione del commento come richiesto dal suo autore oppure intraprendere delle azioni tese a modificare almeno in parte il contenuto del commento;

Ad un livello più generale va detto che la redazione e la pubblicazione di un commento costituisce - per molte ragioni - un evento desiderabile da parte del curatore del blog. Il commento, soprattutto se frutto di una seppur breve riflessione e se coerente con lo stile comunicativo del blog, arricchisce l’articolo - in gergo: il ‘post’ - con informazioni e osservazioni utili e interessanti e consente all’autore dell’articolo, eventualmente, di ritornare sull’argomento offrendo ulteriori spunti di riflessione, che possono dare origine a nuovi commenti rendendo sempre più stimolante l'interazione e il dialogo. Senza contare che attraverso i commenti il curatore del blog è in grado di conoscere meglio i suoi lettori, condizione importante per meglio finalizzare e orientare il suo lavoro.


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dal vocabolario onlice Treccani



commentare (ant. comentare) v. tr. [dal lat. commentari «avere nello spirito, riflettere», poi «commentare», der. di mens mentis «mente, memoria», col pref.con-] (io comménto, ecc.). –

comménto (ant. coménto) s. m. [dal lat. commentum, che ebbe in periodo class. il sign. di «invenzione, finzione» (dal part. pass. commentus di comminisci«immaginare»); lo sviluppo semantico è dovuto all’influenza di commentari«commentare»]. –