Si tratta di sviluppare una nuova cultura che si basi non solo sull'abilità tecnica dell'uomo, ma anche sulla sua saggezza; non solo sulla sua capacità di modificare la natura, ma anche su quella di comprenderla; che veda l'uomo non solo in grado di dare nuove qualità all'artificiale, ma anche di garantire la continuità di quel fragile substrato naturale su cui si basa tutto l'esistente e anche la sua stessa speranza di vita. (E.M.)

mercoledì 26 marzo 2014

ribellione tecnologica

Avete sentito parlare degli occhiali di Google, i cosidetti Google Glass? In questo post ce ne occupiamo un pò, e cominciamo col guardare un breve video. Osservate bene perchè poi faremo qualche considerazione...


Visto? Bene. Ok: in definitiva questi occhiali sanno dove io mi trovo e mi danno qualche suggerimento utile, mi indicano la strada da percorrere, mi segnalano rischi e opportunità sul mio cammino; mi consentono di effettuare videochiamate mentre paseggio per la città; mi segnalano amici nelle vicinanze; sono in grado, all'occorrenza, di rispondere a qualche domanda... Insomma, di certo un po' futuristici ma tutto sommato comodi, forse perfino utili.

O no?

Se, dopo aver visto il filmato, condividete queste prime impressioni non sarà che  anche voi, come il sottoscritto, avete abbassato un tantino la guardia, che la 'messinscena' della nuova tecnologia vi ha convinto, vi ha sedotto? E che le promesse del nuovo attraente device tecnologico hanno equilibrato e forse superato i timori della sua inutilità o, quantomeno, quelli di una sua possibile problematicitàtossicità? Probabile, quasi certo...

Dico questo perchè, se non ve ne siete accorti, il 'nostro' video è in realtà una riuscitissima contraffazione: un'organizzazione americana impegnata in una seria e preziosa attività di controllo e di critica sui nuovi media digitali e sul loro utilizzo (http://www.rebelliouspixels.com/), ha preso il video originale preparato da Google (si può vedere qui) e - in base alla considerazione che il colosso di Mountain View alla fine vive di pubblicità - lo ha infarcito di funzioni pubblicitarie e promozionali, al momento assenti ma certamente plausibili per un prossimo futuro (senza contare che i suggerimenti e le pubblicità che appaiono nel video sono quelle effettivamente associate da Google, nelle normali ricerche, alle diverse situazioni).

Scrivono i creativi di Rebellious Pixels: "Google will probably not be this obvious with their interface but there's no question that the company will be gathering a massive amount of extremely personal data based on what you look at and for how long. The company may use this data mining to build even more detailed consumer profiles and/or sell über targeted ads. Because let's face it, Google is really just a massive advertising company at heart." (... Perchè, ce lo possiamo dire, Google è davvero, in sostanza, nient'altro che una colossale agenzia pubblicitaria)

Qualche perplessità sull'opportunità di immettere sul mercato un artefatto con quelle caratteristiche è venuta, dalle nostre parti, agli esperti del Codacons. Che a metà febbraio - prima della notizia dell'accordo Google-Luxottica - hanno richiesto ufficialmente "al ministero della Salute e a quello dello Sviluppo Economico di vietare la commercializzazione in Italia degli occhiali di nuova generazione prodotti da Google e denominati Google Glass". Oltre ai problemi sulla sicurezza il Codacons fa riferimento a quelli sulla privacy: "i Google Glass non solo sono in grado di fotografare e filmare tutto ciò che compare davanti agli occhi di chi li indossa, ma potrebbero addirittura permettere l'identificazione delle persone, attraverso applicazioni capaci di fornire dati sensibili attraverso il riconoscimento facciale".

Eccesso di prudenza oppure sana e necessaria critica preventiva?

sabato 22 marzo 2014

pensare con le macchine

"Connessi - beati quelli che sapranno pensare con le macchine", appena uscito in edicola, è un libretto sulla tecnologia, intelligente, divertente e scritto con un linguaggio accessibile (vedi citazione al termine del post).


È sufficiente vedere quello che finisce dentro le rubriche di tecnologia su magazine e settimanali vari per riconoscere come la prospettiva più diffusa da cui si guarda al mondo dell'artificiale, almeno sui grandi mezzi di comunicazione, è riduttiva e in molti casi fuorviante. Non so come la pensiate voi...

Smartphone, tablet, fotocamere digitali, personal computer. L'idea di tecnologia che si incontra in circolazione sembra esaurirsi in quei pochi gadget che possono trovare spazio nelle pagine di un depliant pubblicitario o sullo scaffale di un ipermercato. Il grande pubblico, noi cittadini genitori educatori, rischia di restare estraneo rispetto ai temi, alle domande e alle sfide che, ben oltre la ristretta visuale commerciale e consumistica, danno corpo al sapere tecnologico.


In questo desolante panorama spicca, piacevole e promettente nota stonata, questo bel libretto del professor Stefano Moriggi, uscito ieri mattina in edicola insieme al settimanale Famiglia Cristiana, nella bella collana "nuove beatitudini". Il breve saggio, quasi un pamphlet, accompagna il lettore attraverso un rapido ma mai superficiale tragitto attraverso alcune delle idee fondamentali e delle voci più significative che hanno caratterizzato l'ormai millenaria impresa tecnologica. Il racconto di Moriggi, sempre godibile, restituisce la tecnologia al più vasto discorso culturale, miscelando con sapienza il riferimento alle idee e ai concetti e quello alle realizzazioni pratiche, sempre considerata nel loro contesto culturale e sociale. Gli spunti sono numerosi e originali: si passa dalle luminose intuizioni di Platone alle provocatorie considerazioni di Albert Einstein o di Richard Feynman, dal Panopticon di Jeremy Bentham al confessionale (si, avete letto bene!) di Carlo Borromeo. È la diffusione di opere come questa che può aiutare la tecnologia a consolidare il proprio repertorio tematico e problematico, a definire il proprio codice linguistico, a selezionare e valorizzare quelle voci capaci di raccontare e di interpretare il lungo e complicato cammino dell'impresa tecnologica.

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Riporto un piccolo brano che può dare un'idea dell'opera:

"Pensare con le macchine è anzitutto una strategia di conoscenza: riprodurre artificialmente (e sperimentalmente) un fenomeno naturale significa anzitutto comprenderlo. Le macchine non sono solo strumenti per fare, ma anche per indagare. Sognare di costruire un cervello, ovvero una macchina in grado di simulare alcune delle funzioni cognitive proprie dell'essere umano, non è un atto che trasuda tracotanza. Al contrario, incarna l'umile sforzo di chi, per tentativi ed errori, cerca di sviluppare e perfezionare concreti modelli di comprensione di una porzione del mondo. Riprodurre artificialmente il corpo, da un'articolazione bionica ai modelli di reti neurali, al di là delle effettive o potenziali ricadute biomediche o informatiche, rappresenta da questo punto di vista uno dei modi con cui la scienza moderna interroga la natura per intuirne le leggi." (pp.15-16)

domenica 16 marzo 2014

connotare la tecnica

Apollo 13 è uno di quei film dove la tecnologia è protagonista. Invece di restare sullo sfondo, e rimanere un elemento di contorno e di contesto, occupa spesso il centro della scena attirando su di sè ogni attenzione. Il film rappresenta un tentativo, molto ben riuscito a mio parere, di raccontare la vicenda di una poco fortunata missione spaziale facendo emergere quella peculiare combinazione e commistione di aspetti tecnico-scientifici e aspetti psico-relazionali che caratterizza ogni impresa tecnologica o tecnoscientifica.

Il racconto di una qualunque azione pratica - come preparare una torta, progettare un'auto o come pilotare una nave spaziale danneggiata - non può essere affidato, meno che meno in un contesto formativo ed educativo, al solo linguaggio denotativo, il linguaggio cioè dell'obiettività e della impersonalità (vedi Nota 1). "Diamo molta importanza - ha affermato recentemente in proposito Richard Sennet - al linguaggio denotativo, un tipo di linguaggio procedurale che fornisce istruzioni precise, ma sovente esso non ci aiuta a passare dalle informazioni all’esecuzione dell’atto pratico. Un linguaggio più connotativo, immaginativo, invece, è più adatto a comunicare cosa significhi fare qualcosa."

L'impresa tecnologica e il sapere che presuppone e mobilita, ricco di innumerevoli implicazioni sociali, culturali, etiche, necessita per poter essere compresa e comunicata di una densa narrazione più che di una arida, sebbene precisa, spiegazione. Per dirla con Sennet "Il linguaggio denotativo non è sufficiente, bisogna individuare una maniera più attiva per comunicare."

Possiamo mettere alla prova queste considerazioni nella visione di un breve filmato realizzato da Unindustria Bologna qualche mese fa e intitolato "C'è un'Italia che corre da sola". Il video, i cui testi sono letti dalla voce di Giorgio Comaschi, "narra" del dinamismo e della competitività dell'impresa meccanica emiliana


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Nota 1 - "Com’è noto nella comunicazione umana si utilizzano due codici generali: quello numerico o digitale, che veicola il contenuto della comunicazione, e il codice analogico o simbolico, che veicola gli aspetti relazionali della comunicazione. Nei termini della linguistica il codice numerico corrisponde al piano denotativo del linguaggio, che denota, cioè, indica, il piano della precisione, il mondo del significato e dell’oggettività, mentre il codice simbolico corrisponde al piano connotativo, cioè a livelli di significato che oltrepassano l’oggettività, il linguaggio poetico o le metafore, per esempio"

da Bentivogli, Catani, Marmo, Morgagni, "Le competenze invisibili, formare le competenze che tutti cercano", Franco Angeli 2013 (http://www.francoangeli.it/Area_PDFDemo/488.41_demo.pdf)

martedì 11 marzo 2014

risorse e sostituti


Il ritratto del modellatore (o modellista) che la casa editrice Loescher ha confezionato per il suo testo "Italia dal vivo" è un ottimo punto di partenza per farsi un'idea sulle recenti tecniche di prototipazione rapida. Il modellista, come spiega lo stesso artigiano intervistato, è "quella persona che trasforma un disegno, un'idea, un concetto, in un oggetto tridimensionale". E' un'attività resa possibile da strumenti informatici potenti e da attrezzature sofisticate, ma in cui rimane fondamentale la capacità di intervenire direttamente, cioè con le mani, sugli oggetti e sui modelli che vengono realizzati. In altre parole il processo produttivo combina e coniuga - in modo da renderli difficilmente separabili - aspetti automatizzati e computerizzati con aspetti di carattere prettamente manuale, approcci artistici con approcci di tipo industriale. Il modellista - che fa espressamente riferimento alla propria "vocazione di tipo artistico" - ben rappresenta quindi il modo in cui il sapere artigianale  si evolve integrando nuove conoscenze e nuove tecniche rese disponibili dai progressi delle tecnologie digitali, conservando una fondamentale presenza dell'apporto creativo e interpretativo del particolare artigiano.

La diffusa tendenza ad una eccessiva delega alle apparecchiature informatiche delle principali facoltà umane - quelle ideative, immaginative, creative - viene denunciata anche dal sociologo Richard Sennet nei suoi lavori recenti. "Il computer, in pratica, non è più una risorsa ma un sostituto", afferma nella Lezione Magistrale dal titolo "Le mani per pensare" che ha tenuto a Bologna nel settembre del 2009. Prosegue Sennet con riferimento alla professione dell'architetto: "Esiste un programma magnifico, il CAD: si immettono delle coordinate ed esso esegue il disegno. Se utilizzato male, però, impedisce di imparare a conoscere un oggetto. È stato Renzo Piano a farmelo notare, quando mi ha detto: “Faccio edifici molto complessi, ma io disegno sempre a mano; è in questo modo che imparo a conoscere l’oggetto a cui lavoro”. Ecco, io temo che molto spesso la tecnologia di cui disponiamo ci porti a delegare al computer il rapporto con l’oggetto del nostro lavoro, oltre a privarci del confronto con le altre persone. Non parlo da artista romantico, ma da tecnico. Se hai a che fare con un algoritmo puoi utilizzare un calcolatore: è sufficiente dare un determinato comando e lo risolverà, ma non ne capirai davvero il funzionamento. Si cade troppo facilmente nell’abuso della tecnologia e questo, di nuovo, rende i nostri studenti meno abili."

lunedì 3 marzo 2014

liberi di imparare?

Siamo abituati a pensare e a dire che i bambini, i nostri bambini, giocano con lo smartphone o con il tablet. Non ci viene il dubbio che sarebbe più corretto parlare di "utilizzo" e che dovremmo riservare il termine "giocare" a situazioni diverse, più libere e creative di quanto non sia o voglia apparire la cornice virtuale del device di turno? La parola chiave è proprio quella di creatività. Perchè l'importanza del gioco sta soprattutto nella sua capacità di sviluppare le potenzialità inventive e creative dei bambini.

Un utilizzo precoce e troppo frequente di dispositivi elettronici basati sull'interazione visiva (quindi dotati di schermo, anche se touch screen) sottrae ai bambini tempo prezioso che invece potrebbero (dovrebbero?) dedicare ai giochi veri, cioè quelli con oggetti e materiali reali, possibilmente all'aperto, e con compagni di gioco in carne ed ossa, specialmente di età mista.

Del gioco e del suo ruolo nello sviluppo del bambino si occupa da molti anni lo psicologo americano Peter Gray, autore nel 2013 del fortunato saggio "Free to learn"; un suo recente articolo pubblicato in Italia dalla rivista Internazionale ha contribuito ad alimentare il dibattito su questi temi, quanto mai attuali nell'epoca del "tablet facile".


"Oggi i bambini - si legge nell'abstract del suo articolo, scaricabile qui - non hanno più tempo per giocare tra di loro. La vita a scuola e nel tempo libero è gestita e organizzata dagli adulti. Ma solo giocando possono acquisire le abilità sociali che gli serviranno da grandi: ascoltare gli altri, essere creativi, gestire le emozioni e affrontare i pericoli"

"Il gioco per i bambini è una necessità vitale - scrive Massimo Ammaniti su la Repubblica, riprendendo il lavoro di Gray - perché devono apprendere i complessi codici degli scambi sociali, scoprire situazioni nuove, superare ostacoli imprevisti, coordinare i propri sforzi con gli altri per raggiungere un risultato condiviso. Basta osservare dei bambini che giocano per comprendere il valore e il significato del gioco: non è un' attività imposta, i bambini spontaneamente decidono se partecipare o no, se non si divertono più possono ritirarsi o contrattare per iniziare un altro gioco, fare dei compromessi e stabilire insieme le regole."

Non è curioso che proprio in Italia, patria della monumentale Maria Montessori (http://it.wikipedia.org/wiki/Maria_Montessori), sia il lavoro di uno studioso americano a destare l'attenzione su certe questioni? Comunque, per tornare in Europa, sempre su questi temi, merita di essere letto il recente documento dal titolo eloquente "L'enfant et les écrans" (il bambino e gli schermi), scaricabile qui, redatto su invito dell'Accademia delle Scienze di Francia da un gruppo di studiosi francesi coordinati da Serge Tisseron (http://www.sergetisseron.com/), psichiatra e psicologo di grande fama ed esperienza.

Serge Tisseron par Claude Truong-Ngoc janvier 2014