Cento anni esatti. Il sesto capitolo del volume The School and Society di John Dewey - dal titolo The Psychology of Occupations - è datato 1915, esattamente un secolo fa. Le osservazioni del grande filosofo americano sono ancora interessanti e attuali e possono ancora aiutare a chiarirsi le idee sul tipo di lavoro in cui si dovrebbe cimentare un bambino o un ragazzino durante il suo sviluppo, così come sul tipo di presenza del lavoro nel curricolo e nell'organizzazione scolastica.
Ecco come Dewey chiarisce al lettore i termini del discorso: “By occupation I mean a mode of activity on the part of the child which reproduces, or runs parallel to, some form of work carried on in social life.”
Quindi l'occupazione non è per Dewey un vero lavoro ma comunque un'attività che guarda al lavoro, ai lavori, e che - ad esempio - ne riproduce un aspetto, una componente; un'attività che conserva però, come vedremo, una finalità diversa rispetto a quella più propriamente 'lavorativa'.
Dewey prosegue: “The fundamental point in the psychology of an occupation is that it maintains a balance between the intellectual and the practical phases of experience. As an occupation it is active or motor; it finds expression through the physical organs — the eyes, hands, etc. But it also involves continual observation of materials, and continual planning and reflection, in order that the practical or executive side may be successfully carried on. Occupation as thus conceived must, therefore, be carefully distinguished from work which educates primarily for a trade. It differs because its end is in itself; in the growth that comes from the continual interplay of ideas and their embodiment in action, not in external utility.”
È geniale il modo in cui Dewey individua nel concetto di ‘occupazione’ - in contrapposizione al concetto di ‘lavoro’ - un elemento distintivo della teoria pedagogica che sta costruendo. Mentre il lavoro istruisce soprattutto alla pratica di un mestiere, l'occupazione non persegue una qualche utilità esterna ma, al contrario, ha in sé stessa il proprio fine.
“It is possible to carry on this type of work in other than trade schools, so that the entire emphasis falls upon the manual or physical side. In such cases the work is reduced to a mere routine or custom, and its educational value is lost. This is the inevitable tendency wherever, in manual training for instance, the mastery of certain tools, or the production of certain objects, is made the primary end, and the child is not given, wherever possible, intellectual responsibility for selecting the materials and instruments that are most fit, and given an opportunity to think out his own model and plan of work, led to perceive his own errors, and find out how to correct them-that is, of course, within the range of his capacities. So far as the external results held in view, rather than the mental and moral states and growth involved in the process of reaching the result, the work may be called manual, but cannot rightly be termed an occupation. Of course the tendency of all mere habit, routine, or custom is to result in what is unconscious and mechanical. That of occupation is to put the maximum of consciousness into whatever is done.”
E' possibile che questo tipo di lavoro si diffonda, a partire dalle scuole professionali (cioè le scuole in cui si impara un mestiere), anche in altre scuole. Si tratta di una direzione inevitabile tutte le volte che - come ad esempio nel caso del ‘manual training’ - la padronanza di particolari strumenti o la produzione di particolari oggetti diventano lo scopo fondamentale. Fintanto che sono i risultati in uscita ad essere in primo piano, piuttosto che i diversi stati e lo sviluppo sia mentale che morale interessati dal processo di raggiungimento del risultato, il lavoro può anche dirsi ‘manuale’ ma, a rigore, non può essere definito come una ‘occupazione’.
In una scuola alla continua ricerca di una propria identità laboratoriale, ma sempre in difficoltà nel definire che cosa si debba intendere con tale vaga espressione, il concetto di occupazione delineato a suo tempo da Dewey può essere utile per fare ordine tra i pensieri come tra le parole.
Si tratta di sviluppare una nuova cultura che si basi non solo sull'abilità tecnica dell'uomo, ma anche sulla sua saggezza; non solo sulla sua capacità di modificare la natura, ma anche su quella di comprenderla; che veda l'uomo non solo in grado di dare nuove qualità all'artificiale, ma anche di garantire la continuità di quel fragile substrato naturale su cui si basa tutto l'esistente e anche la sua stessa speranza di vita. (E.M.)
pagine
venerdì 26 giugno 2015
domenica 21 giugno 2015
Selezione scolastica
La necessità di distinguere tra differenti tipi di selezione scolastica - in particolare tra selezione positiva e selezione negativa - è ben espressa in un interessante contributo di Vertecchi a un convegno su 'Educazione e divisione del lavoro' dei primi anni 80. “Il linguaggio educativo è spesso reso ambiguo dalla sovrapposizione di aloni derivanti da accezioni parziali di un termine o singole manifestazioni di aspetti determinati. Quando l'alone è amplificato da mode finisce col pregiudicare anche per tempi molto lunghi usi più corretti del lessico. Qualcosa del genere è accaduto per la selezione, con effetti di riduzione e distorsione sul dibattito complessivo. Vorrei che la distinzione fra «selezione negativa» e «selezione positiva» rendesse di nuovo fruibile un concetto senza il quale i discorsi sull'educazione rischiano di restare tutti in qualche misura incompleti, o reticenti.”
Che cosa dobbiamo intendere allora con queste due espressioni? È più semplice spiegare il senso di una selezione positiva. “Si tratta di indicare per ciascun allievo un percorso formativo che consenta la più ampia espressione delle sue capacità e nello stesso tempo (1) non pregiudichi alcuna possibilità di ulteriore acquisizione di competenze, (2) né sia predittivo, almeno per tempi lunghi, della qualità del lavoro che potrà essere svolto.” Nella selezione positiva c'è quindi l'idea di una definizione individualizzata del percorso di studio unita alla duplice necessità di promuovere ogni ulteriore ampliamento del bagaglio di conoscenze e competenze e di innalzare il livello del loro possesso in modo da non limitare la futura scelta di un'occupazione ad una rosa quantitativamente e qualitativamente troppo modesta.
Ma è nella descrizione del meccanismo della selezione negativa, assai più complicato e subdolo, che lo studioso svolge alcune considerazioni di una chiarezza davvero illuminante. “È proprio della selezione negativa procedere attraverso esclusioni. Ciò avviene sia quando gli allievi selezionati possiedono caratteristiche scolastiche che lasciano prevedere uno sviluppo favorevole del curricolo, sia quando la previsione è sfavorevole. Potremmo anche dire che la selezione varia secondo una scala le cui posizioni corrispondono a varie misure di esclusione. (A) Se il giudizio sulle caratteristiche scolastiche è del tutto favorevole, l'esclusione riguarda ogni attività di studio che sia accreditata di una dignità inferiore rispetto a quella che si ritiene debba contrassegnare l'impegno intellettuale di allievi «dotati»: la dignità di un itinerario formativo corrisponde a sua volta all'assenza o alla misura della presenza di attività manuali e in genere applicative. (B) A misura del comparire nel giudizio sulle caratteristiche scolastiche di elementi sfavorevoli, la selezione negativa si sposta verso posizioni inferiori della scala, escludendo quelle che sovrastano secondo il criterio di dignità appena menzionato. (C) Ad un giudizio del tutto sfavorevole fa riscontro una reiezione esplicita dal sistema formativo; è raro tuttavia che a quest’esito si giunga in modo drastico; è più frequente invece che la reiezione costituisca l'effetto di una progressiva accumulazione di elementi negativi, contenenti cioè un potenziale di esclusione.” Nella selezione negativa gioca cioè in modo determinante una corrispondenza tra due scale di valore basate, la prima su di un criterio di «valore scolastico» del ragazzo (riferito sostanzialmente ai suoi risultati scolastici), la seconda su di un criterio di «dignità formativa» dell'itinerario (riferito al tasso di presenza di attività manuali o applicative). A partire da una attribuzione di dignità ai diversi itinerari formativi, il meccanismo della selezione negativa 'assegna' quindi in modo quasi deterministico a ogni ragazzo - una volta che ne siano conosciuti i risultati scolastici - il 'suo' itinerario formativo. Quindi l'esclusione che deriva da una selezione negativa agisce non solamente sui ragazzi con i risultati meno brillanti - come normalmente si crede - ma anche sugli altri.
Conclude Vertecchi: “Se si vuole respingere una nozione deterministica di educazione bisogna che la scuola acquisti una capacità di selezione positiva, fondata cioè non sull'esclusione ma sull'inclusione. La condizione perché la scuola sia in grado di attuare una selezione positiva è che la formazione di base assicuri a tutta la popolazione il possesso diffuso di abilità fondamentali: se la selezione è una scelta, e la scelta consente di essere diversi, bisogna però che le condizioni di scelta siano uguali. In altre parole la selezione è positiva se non è condizionata, e non è condizionata se interviene su un corredo di abilità uniformemente posseduto ed apprezzabile per quantità e qualità.” Oggi come allora mi sembra che le condizioni di equità associate ad un 'possesso uniforme' di abilità e di competenze siano, almeno dalle mie parti, ben poco presenti e realizzate. Quella che ancora oggi funziona meglio è certamente la selezione negativa; quella positiva attende ancora il momento - speriamo non troppo lontano - in cui potersi manifestare in tutto il suo valore.
---
vedi: Benedetto Vertecchi, “È possibile una selezione positiva nella scuola?”, in “Quale società? Un dibattito interdisciplinare sui mutamenti della divisione sociale del lavoro e sulle loro implicazioni educative”, a cura di Aldo Visalberghi, La Nuova Italia, 1985.
Che cosa dobbiamo intendere allora con queste due espressioni? È più semplice spiegare il senso di una selezione positiva. “Si tratta di indicare per ciascun allievo un percorso formativo che consenta la più ampia espressione delle sue capacità e nello stesso tempo (1) non pregiudichi alcuna possibilità di ulteriore acquisizione di competenze, (2) né sia predittivo, almeno per tempi lunghi, della qualità del lavoro che potrà essere svolto.” Nella selezione positiva c'è quindi l'idea di una definizione individualizzata del percorso di studio unita alla duplice necessità di promuovere ogni ulteriore ampliamento del bagaglio di conoscenze e competenze e di innalzare il livello del loro possesso in modo da non limitare la futura scelta di un'occupazione ad una rosa quantitativamente e qualitativamente troppo modesta.
Ma è nella descrizione del meccanismo della selezione negativa, assai più complicato e subdolo, che lo studioso svolge alcune considerazioni di una chiarezza davvero illuminante. “È proprio della selezione negativa procedere attraverso esclusioni. Ciò avviene sia quando gli allievi selezionati possiedono caratteristiche scolastiche che lasciano prevedere uno sviluppo favorevole del curricolo, sia quando la previsione è sfavorevole. Potremmo anche dire che la selezione varia secondo una scala le cui posizioni corrispondono a varie misure di esclusione. (A) Se il giudizio sulle caratteristiche scolastiche è del tutto favorevole, l'esclusione riguarda ogni attività di studio che sia accreditata di una dignità inferiore rispetto a quella che si ritiene debba contrassegnare l'impegno intellettuale di allievi «dotati»: la dignità di un itinerario formativo corrisponde a sua volta all'assenza o alla misura della presenza di attività manuali e in genere applicative. (B) A misura del comparire nel giudizio sulle caratteristiche scolastiche di elementi sfavorevoli, la selezione negativa si sposta verso posizioni inferiori della scala, escludendo quelle che sovrastano secondo il criterio di dignità appena menzionato. (C) Ad un giudizio del tutto sfavorevole fa riscontro una reiezione esplicita dal sistema formativo; è raro tuttavia che a quest’esito si giunga in modo drastico; è più frequente invece che la reiezione costituisca l'effetto di una progressiva accumulazione di elementi negativi, contenenti cioè un potenziale di esclusione.” Nella selezione negativa gioca cioè in modo determinante una corrispondenza tra due scale di valore basate, la prima su di un criterio di «valore scolastico» del ragazzo (riferito sostanzialmente ai suoi risultati scolastici), la seconda su di un criterio di «dignità formativa» dell'itinerario (riferito al tasso di presenza di attività manuali o applicative). A partire da una attribuzione di dignità ai diversi itinerari formativi, il meccanismo della selezione negativa 'assegna' quindi in modo quasi deterministico a ogni ragazzo - una volta che ne siano conosciuti i risultati scolastici - il 'suo' itinerario formativo. Quindi l'esclusione che deriva da una selezione negativa agisce non solamente sui ragazzi con i risultati meno brillanti - come normalmente si crede - ma anche sugli altri.
Conclude Vertecchi: “Se si vuole respingere una nozione deterministica di educazione bisogna che la scuola acquisti una capacità di selezione positiva, fondata cioè non sull'esclusione ma sull'inclusione. La condizione perché la scuola sia in grado di attuare una selezione positiva è che la formazione di base assicuri a tutta la popolazione il possesso diffuso di abilità fondamentali: se la selezione è una scelta, e la scelta consente di essere diversi, bisogna però che le condizioni di scelta siano uguali. In altre parole la selezione è positiva se non è condizionata, e non è condizionata se interviene su un corredo di abilità uniformemente posseduto ed apprezzabile per quantità e qualità.” Oggi come allora mi sembra che le condizioni di equità associate ad un 'possesso uniforme' di abilità e di competenze siano, almeno dalle mie parti, ben poco presenti e realizzate. Quella che ancora oggi funziona meglio è certamente la selezione negativa; quella positiva attende ancora il momento - speriamo non troppo lontano - in cui potersi manifestare in tutto il suo valore.
---
vedi: Benedetto Vertecchi, “È possibile una selezione positiva nella scuola?”, in “Quale società? Un dibattito interdisciplinare sui mutamenti della divisione sociale del lavoro e sulle loro implicazioni educative”, a cura di Aldo Visalberghi, La Nuova Italia, 1985.
Etichette:
abbandono,
dispersione,
equità,
esclusione,
inclusione,
orientamento,
scelta,
scu,
scuola,
selezione,
Vertecchi
lunedì 15 giugno 2015
Interesse individuale, interesse sociale
Giugno, tempo di scrutini e tempo di esami. Per qualcuno, con la pagella crivellata di insufficienze, se ne riparlerà l'anno prossimo. Per qualcun altro, all'opposto, la commissione d'esame stabilisce i criteri con cui assegnare la lode (parliamo del "dieci e lode" dell'esame di stato di licenza media). E la lode, si decide, discende in modo automatico o quasi automatico dalle valutazioni numeriche delle varie prove: tutti dieci, o al più un nove? ecco che scatta il "dieci e lode" senza discussioni.
Da un lato quindi i meritevoli, dall'altro lato chi non ha voluto, chi non ha creduto, chi non ha potuto, insomma chi per qualsiasi ragione ha de-meritato. Però qualche riflessione questo sistema in me la suscita.
La questione riguarda il riconoscimento di un merito scolastico attraverso l'attribuzione di una menzione speciale, la lode appunto. La cosa in sè è certamente positiva: il fatto che la comunità scolastica si ponga l'obiettivo di attribuire ai più meritevoli una particolare sottolineatura e di additarli metaforicamente come esempio per i compagni mi sembra giusto. Il problema tuttavia emerge nel momento in cui si guardi più da vicino quelli che sono i criteri attraverso i quali il (presunto) 'merito' viene concretamente misurato o riconosciuto.
La scelta di utilizzare (soprattutto) le valutazioni disciplinari come indicatori del merito solleva di fatto da una più impegnativa e approfondita analisi: si assume implicitamente che la valutazione costituisca un efficace indicatore dell'effettivo 'valore' del ragazzo o della ragazza. Questo però potrebbe non essere del tutto vero. Infatti non sempre le valutazioni disciplinari tengono nel dovuto conto il possesso di quelle competenze trasversali 'immateriali' che riguardano l'atteggiamento dei ragazzi nei confronti del lavoro scolastico, la motivazione intrinseca allo studio (oltre a quella estrinseca, cioè legata a spinte o premialità di tipo esterno), le capacità di comunicare e di coinvolgere i compagni come anche di lavorare in gruppo, la capacità di risolvere problemi concreti.
A questa difficoltà se ne aggiunge poi una seconda, meno evidente. Essa riguarda la difficile e non scontata conciliazione tra interessi privati e interessi sociali; infatti è importante distinguere quegli atteggiamenti o quelle prestazioni che si orientano di fatto nella direzione di un interesse della comunità (ad esempio scolastica) o più in generale della società - l'interesse sociale, appunto - e quelle prestazioni o quegli atteggiamenti che hanno si una ricaduta positiva, ma prevalentemente nella sfera individuale, cioè del soggetto (il ragazzo o la ragazza) che li mette in atto - l'interesse privato o individuale, appunto. In altre parole io penso che l'istituzione scolastica si dovrebbe porre l'obiettivo di riconoscere e valorizzare non tanto le prestazioni scolastiche eccellenti in senso generico quanto piuttosto quelle caratterizzate da un elevato interesse sociale, cioè da una forte ricaduta sul piano - ad esempio - della capacità di cooperazione o di collaborazione e della attribuzione reciproca di rispetto e fiducia. Prestazioni, queste ultime, difficilmente verificate e riconosciute quanto meriterebbero con le usuali pratiche valutative.
Da un lato quindi i meritevoli, dall'altro lato chi non ha voluto, chi non ha creduto, chi non ha potuto, insomma chi per qualsiasi ragione ha de-meritato. Però qualche riflessione questo sistema in me la suscita.
La questione riguarda il riconoscimento di un merito scolastico attraverso l'attribuzione di una menzione speciale, la lode appunto. La cosa in sè è certamente positiva: il fatto che la comunità scolastica si ponga l'obiettivo di attribuire ai più meritevoli una particolare sottolineatura e di additarli metaforicamente come esempio per i compagni mi sembra giusto. Il problema tuttavia emerge nel momento in cui si guardi più da vicino quelli che sono i criteri attraverso i quali il (presunto) 'merito' viene concretamente misurato o riconosciuto.
La scelta di utilizzare (soprattutto) le valutazioni disciplinari come indicatori del merito solleva di fatto da una più impegnativa e approfondita analisi: si assume implicitamente che la valutazione costituisca un efficace indicatore dell'effettivo 'valore' del ragazzo o della ragazza. Questo però potrebbe non essere del tutto vero. Infatti non sempre le valutazioni disciplinari tengono nel dovuto conto il possesso di quelle competenze trasversali 'immateriali' che riguardano l'atteggiamento dei ragazzi nei confronti del lavoro scolastico, la motivazione intrinseca allo studio (oltre a quella estrinseca, cioè legata a spinte o premialità di tipo esterno), le capacità di comunicare e di coinvolgere i compagni come anche di lavorare in gruppo, la capacità di risolvere problemi concreti.
A questa difficoltà se ne aggiunge poi una seconda, meno evidente. Essa riguarda la difficile e non scontata conciliazione tra interessi privati e interessi sociali; infatti è importante distinguere quegli atteggiamenti o quelle prestazioni che si orientano di fatto nella direzione di un interesse della comunità (ad esempio scolastica) o più in generale della società - l'interesse sociale, appunto - e quelle prestazioni o quegli atteggiamenti che hanno si una ricaduta positiva, ma prevalentemente nella sfera individuale, cioè del soggetto (il ragazzo o la ragazza) che li mette in atto - l'interesse privato o individuale, appunto. In altre parole io penso che l'istituzione scolastica si dovrebbe porre l'obiettivo di riconoscere e valorizzare non tanto le prestazioni scolastiche eccellenti in senso generico quanto piuttosto quelle caratterizzate da un elevato interesse sociale, cioè da una forte ricaduta sul piano - ad esempio - della capacità di cooperazione o di collaborazione e della attribuzione reciproca di rispetto e fiducia. Prestazioni, queste ultime, difficilmente verificate e riconosciute quanto meriterebbero con le usuali pratiche valutative.
Etichette:
interesse sociale,
lode,
merito,
prestazione,
scuola,
società,
soft skills,
voti
Iscriviti a:
Commenti (Atom)




