Si tratta di sviluppare una nuova cultura che si basi non solo sull'abilità tecnica dell'uomo, ma anche sulla sua saggezza; non solo sulla sua capacità di modificare la natura, ma anche su quella di comprenderla; che veda l'uomo non solo in grado di dare nuove qualità all'artificiale, ma anche di garantire la continuità di quel fragile substrato naturale su cui si basa tutto l'esistente e anche la sua stessa speranza di vita. (E.M.)

giovedì 26 giugno 2014

guardie (analogiche) e ladri (digitali)

Avendo dedicato il mio post precedente al "salto culturale" auspicato da Luigi Berlinguer (e da Arnold Pacey molto prima di lui) per imparare a utilizzare, gestire e dominare la tecnologia, mi ha molto colpito il riferimento alle idee sulla tecnologia di Giuseppe Ungaretti, citato molto a proposito da un bell'articolo di Luca De Biase, pubblicato sul Sole 24 Ore dello scorso 19 giugno, all'indomani della prova di italiano dell'esame di maturità.


(Il poeta Ungaretti all'Italsider negli anni Sessanta
da http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it)

Corrono i primi anni 50, inizia la pubblicazione la rivista "Civiltà delle macchine" sotto la direzione di Leonardo Sinisgalli, e nel primo numero della rivista (era il gennaio del 1953 per la precisione) Ungaretti viene invitato a svolgere qualche riflessione suggerita "dal  progresso moderno, irrefrenabile, della macchina".

(il primo numero di Civiltà delle Macchine - gennaio 1953
da http://www.internetculturale.it/)

Ne scaturisce un testo straordinario, sotto forma di lettera all'amico Sinisgalli direttore della rivista. La lettera si conclude con queste righe:

"Il volo, l'apparizione delle cose assenti, la parola udita nel medesimo suono casuale di chi l'ha profferita senza ostacoli di distanza di tempo e di luogo, gli abissi marini percorsi, il sasso che racchiude tanta forza da mandare in fumo in un baleno un continente, tutte le favolose meraviglie da Mille e una notte, e molte altre, si sono avverate, la macchina le avvera. Hanno cessato d'essere slanci nell'impossibile della fantasia e del sentimento, sogni, simboli della sconfinata libertà della poesia. Sono divenuti effetti di strumenti foggiati dall'uomo. Come l'uomo potrà risentirsi con essi strumenti grande, traendo forza solo dalla sua debole carne? - Forza morale! - La rivista che inizia con questo numero le sue pubblicazioni, e che tu dirigi, si propone di richiamare l'attenzione dei lettori anche sulle facoltà strabilianti d'innovamento estetico della macchina. Vorrei anche che essa richiamasse l'attenzione su un altro ordine di problemi: i problemi legati all'aspirazione umana di giustizia e libertà. Come farà l'uomo per non essere disumanizzato dalla macchina, per dominarla, per renderla moralmente arma di progresso?"


Luca De Biase si era già interessato a questa formidabile lettera del "visionario" Ungaretti in un suo post di qualche anno fa. Ora la riprende, sottolineandone l'attualità e facendo riferimento all'auspicato salto culturale:

"Gli elaboratori, suggeriva Giuseppe Ungaretti, sono destinati a diventare talmente potenti da superare l'immaginazione umana. E quando avverrà, diceva, gli uomini saranno tentati di imparare a pensare come i computer: a meno che non sappiano fare un grande salto di qualità culturale ed etico."
(di Luca De Biase - Continua a leggere su IlSole24ORE.com)

Ma la conclusione dell'articolo di De Biase è quella più interessante:
"Certo, anche l'idea di progresso sta cambiando in quest'epoca di grande trasformazione. Le visioni e le intuizioni che tentano di interpretarla sono preziose. Ed è però necessario che si incarnino nell'innovazione fondamentale, quella che si dedica alla formazione. Questione decisiva: per sviluppare una società consapevole dei rischi che si corrono se ci si limita a usare la tecnologia senza comprenderla e, soprattutto, per alimentare di idee una popolazione che sappia essere protagonista dell'innovazione, che sappia riconoscere le gigantesche possibilità che il presente offre a chi sia pronto a vederle e a coglierle. Occorre il salto di qualità culturale ed educativo immaginato da Ungaretti. La scuola è chiamata a svolgere un compito essenziale."
Per l'Autore l'innovazione della società, incalzata dal rapido evolversi della tecnologia, non può che accompagnarsi e fondersi con l'innovazione della scuola e della formazione. Senza questa mutazione, questa 'incarnazione' della tecnologia nelle pratiche e nell'organizzazione scolastica si rischia di privare i giovani di una reale comprensione dela tecnica e della tecnologia, rendendoli utilizzatori ottusi e inconsapevoli di tutto quello che il mercato propone e impone; inoltre si rischia di esiliare l'innovazione dal mondo della scuola, e di rinunciare all'educazione di quel pensiero analitico e critico che risulta indispensabile per dominare la tecnologia.


D'accordissimo. Faccio invece più fatica a seguire De Biase nella sua simpatia per le idee di Dianora Bardi, molto amplificate in questi giorni dalla scelta di un suo brano tra i documenti proposti per il tema della maturità di quest'anno. Ecco il brano:

«Per molto tempo al centro dell'attenzione sono state le tecnologie e gli interrogativi che si portano dietro: «Meglio i tablet o i netbook?», «Android, iOs o Windows?», seguiti da domande sempre più dettagliate «Quanto costano, come si usano, quali app…». Intanto i docenti hanno visto le classi invase da Lim, proiettori interattivi, pc, registri elettronici o tablet, senza riuscire a comprendere quale ruolo avrebbero dovuto assumere, soprattutto di fronte a ragazzi tecnologicamente avanzati che li guardavano con grandi speranze e aspettative. Per gli studenti si apre una grande opportunità: finalmente nessuno proibisce più di andare in internet, di comunicare tramite chat, di prendere appunti in quaderni digitali o leggere libri elettronici.»
(http://nova.ilsole24ore.com/frontiere/la-tecnologia-da-sola-non-fa-scuola)

In queste riflessioni forse un po' frettolose non mi sembra di leggere, come invece fa De Biase, con lodevole generosità peraltro, "le grandi aspettative di miglioramento didattico connesse all'innovazione", oppure "le gigantesche opportunità di riprogettazione dell'eperienza scolastica per adattarla alle sfide della contemporaneità". L'analisi mi pare più fragile: gli studenti sono presentati  quasi come prigionieri digitali in un mondo - la scuola - dominato da carcerieri analogici con poco o nulla da dire o da suggerire, intenti per lo più a proibire e punire. La questione è più variegata, alle luci si accompagnano molte ombre. Per dirne una, ma torneremo con più calma su queste questioni, bisognerà intendersi su che cosa significhi "comunicare", "prendere appunti", "leggere"; facendo molta attenzione alle insidie dell'ovvio, per citare il titolo di un prezioso lavoro di Maria Ranieri su questi argomenti.

In conclusione, senza nulla togliere alla Bardi e alle sue certezze, preferisco di molto gli interrogativi di Ungaretti. E voi che ne dite?

lunedì 2 giugno 2014

un salto culturale

Trent'anni sono una vita. Ma le buone idee possono avere una lunga incubazione, e dare poi frutto in modo inaspettato.

Era il 1983 quando Arnold Pacey, giovane studioso di scienze agrarie e ambientali, diede alle stampe (per MIT Press) un suo lavoro intitolato 'The culture o technology' 



Il suo lavoro fu tradotto in italiano e uscì per Editori Riuniti qualche anno dopo con il titolo, chissà perchè modificato, "Vivere con la tecnologia" (http://sol.unibo.it/SebinaOpac/Opac?action=search&thNomeDocumento=UBO0451799T), con la prefazione di Antonio Ruberti. Lo stesso Ruberti, in un suo intervento di poco precedente alla pubblicazione, spiegava il valore del pioneristico lavoro di Pacey:

<<L'obiettivo del libro è condensato in questo giudizio: "Nelle società avanzate del mondo, con le loro economie di mercato, le istituzioni aperte e la democrazia politica, un tema dominante, il tema del progresso, viene trattato in senso unidirezionale, nel senso di uno sviluppo lineare, dell'implicita e spesso esplicita fede nelle possibilità illimitate di espansione quantitativa. Il nuovo tema che potrebbe prendere il suo posto... non è la negazione della crescita... ma quello che mi sembra un passo avanti, cioè uno sviluppo qualitativo piuttosto che quantitativo".>>


Proseguiva Ruberti, parafrasando Pacey: <<In rapporto a questo obiettivo è bene non limitarsi ad identificare la tecnologia con i suoi aspetti tecnici (macchine, attività di produzione, ecc.) e non accettare la separazione tra produzione ed uso. Appare utile perciò, ispirandosi alla differenza tra "scienza medica" (aspetti strettamente scientifici e tecnici) e "pratica medica" (attività terapeutica nel suo insieme, acquisizioni tecniche, organizzazione, aspetti culturali con scale di valori e codice etico della professione), introdurre il concetto di "pratica tecnologica" come < l'applicazione di conoscenze scientifiche e di altre conoscenze ai fini pratici mediante sistemi articolati coinvolgenti persone e organizzazioni, cose viventi e macchine >. E' uno sforzo per collegare produzione e utilizzazione, tenere insieme aspetti tecnici, organizzativi e culturali. >>

(Antonio Ruberti)

The culture o technology è rimasto l'unico lavoro di Pacey, che io sappia, tradotto in italiano e pubblicato in Italia (forse in un'unica edizione, ma non ne sono sicuro), nonostante l'autore abbia proseguito il suo lavoro pubblicando diversi altri studi intorno agli stessi temi. Un grande merito di Pacey è stato quello di mettere in evidenza, tra i primi, la dimensione culturale dell'impresa tecnologica, contribuendo ad arricchire e a precisare la comprensione stessa del fenomeno tecnologico. E non ricorrendo a categorie concettuali di derivazione aristotelica o comunque di tipo razionalistico, ma partendo da un'acuta osservazione delle effettive 'pratiche tecnologiche', riconoscibili nelle più diverse culture e alle più diverse latitudini. Lo stesso titolo (originale) del suo lavoro è emblematico: suona come una affermazione provocatoria, come la rivendicazione di un dominio culturale per un ambito di conoscenze e di saperi - quelli della Tecnologia, appunto -  tradizionalmente relegati alla semplice sfera dell'applicazione.

Passano gli anni senza che le idee di Pacey lascino segni evidenti, almeno in Italia. Arriva il 2005 e la rivista del CNR "TD - Tecnologie Didattiche" dedica un intero numero al tema della cultura nell'attuale società della conoscenza ("quale cultura nella società della conoscenza") con interventi di alcuni 'saggi' tra cui Silvano Tagliagambe, Vittorio Campione, Roberto Maragliano, Mario Fierli. E' proprio Mario Fierli a firmare un articolo denso, interessante e un po' controcorrente dal titolo "La cultura della tecnologia". Nel testo - che si pone domande fondamentali e ancora attuali come: "Cosa è il sapere tecnologico?", "Come viene percepito e vissuto?", "Qual è il suo posto nell'educazione?" -  Fierli rilancia una visione della tecnologia di ampio respiro, non riducibile al solo crinale delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, e riprende esplicitamente il lavoro di Pacey di vent'anni prima.

(Mario Fierli)

Nel definire i tre ambiti di una cultura della tecnologia Fierli riprende, leggermente semplificato, lo schema di Pacey. E spiega: <<una cultura della tecnologia si riferisce ad almeno tre ambiti fondamentali: il sapere tecnologico, il contesto sociale della tecnologia, le immagini e i valori della tecnologia; i tre ambiti sono strettamente collegati, in modo che le pratiche e i saperi relativi ad un ambito non si comprendono senza collegarli alle pratiche e ai saperi degli altri due.>>


Fierli prosegue il suo lavoro riproponendo una distinzione classica tra tre aree concettuali fondamentali della tecnologia, quelle relative a (A) materia, a (B) energia e a (C) informazione/comunicazione. Classificazione che, nella sua schematicità, ha il pregio di circoscrivere il raggio d'azione delle TIC (tecnologie dell'informazione e della comunicazione) evitando il rischio, molto presente negli ambienti formativi, che esse - soprattutto nella loro accezione (riduttiva) di tecnologie educative - occupino l'intero campo semantico della Tecnologia. Inoltre l'autore affronta, seppur in modo rapido, due questioni importanti relative al significato dei termini in gioco. La prima si riferisce al significato del termine tecnologia: <<Da sempre è aperto un dibattito, anzi una disputa, sul significato dei termini tecnica e tecnologia. Abbastanza facile è definire la tecnica come un insieme di mezzi e processi rivolti a fini pratici. Fra questi fini c’è la produzione di oggetti, ma anche la modifica di sistemi naturali e la creazione di sistemi organizzativi. Il termine tecnologia è invece usato con significati diversi, ma soprattutto due: a) sapere (concetti, regole, metodi, teorie, modelli) che serve per condurre attività tecniche e quindi “teoria” della tecnica, b) categoria di oggetti e di soluzioni pratiche che si basano sugli stessi concetti e metodi.>> La seconda questione si riferisce all'uso del singolare oppure del plurale del termine tecnologia: <<Le considerazioni di questo contributo sono di tipo generale e quindi si parla di tecnologia senza ulteriori distinzioni. In realtà appena si voglia scendere nel concreto di qualsiasi operazione formativa è necessario parlare di tecnologie o aree tecnologiche. La classificazione in aree tecnologiche è arbitraria e dipende dal contesto e dai fini per cui si adotta. In particolare può cambiare molto il livello di specificazione e quindi la vastità delle aree considerate>>

La natura "federale" del sapere tecnologico, così come i rapporti tra Tecnologia e Scienza, hanno sempre rappresentato problemi non banali sul piano logico ed epistemologico. Scriveva qualche anno fa Ferdinando Riotta, un altro studioso di tecnologia: <<La disciplina Tecnologia esiste e ha una propria identità, altrimenti non esisterebbero facoltà universitarie come Ingegneria, Architettura, Agraria, ecc.; si tratta di ragionare sul modo di trasformarla in una materia scolastica. Per far questo proviamo a capitalizzare le esperienze di altre discipline: sappiamo tutti che la Scienza, al singolare, è metodo, indagine, sperimentazione, logica … mentre le Scienze, al plurale sono “ambiti” come Biologia, Chimica, Fisica, Etologia, ecc. Cosa possiamo dire della Tecnologia e delle Tecnologie? Perché le Scienze sono insegnate al plurale con la Scienza in dimensione trasversale e noi insegniamo nominalmente al singolare pur se i libri di testo sono pieni praticamente solo del plurale?>>. Domande alle quali in altra sede ho tentato di rispondere.


Lo stesso tema della 'anomalia disciplinare' della tecnologia ritorna nell'ultimo libro di Luigi Berlinguer, ex ministro dell'Istruzione, che a pagina 155 del suo 'Ri-creazione' scrive, a proposito del sapere tecnologico: <<A ben vedere, non si tratta di una disciplina, ma di un insieme di ambiti disciplinari interrelati tra loro, appunto di cultura, di cui ciascuno deve sentirsi partecipe, anche se in modo diverso e coerente rispetto alle proprie personalità e attività.>> Alla scuola spetterebbe il compito di preparare e alimentare l'incontro con questa cultura, a partire dalle sue manifestazioni empiriche e materiali ma senza fermarsi ad esse, e cogliendole come spunti e occasioni per un lavoro più approfondito, analitico e critico, di matrice culturale. Prosegue infatti l'autore: <<In tale ottica la scuola rappresenta l'ambiente congeniale dove iniziare a elaborare una visione culturale del'universo tecnologico, attraverso un processo educativo che, partendo dall'uso delle tecnologie, arrivi a penetrarne gli elementi più squisitamente teorici o speculativi, tramite uno studio interdiciplinare posto tra tradizione e innovazione.>>

(Luigi Berlinguer)

Berlinguer riprende, senza citarla esplicitamente, la classificazione proposta da Fierli nel suo articolo su TD, ancora una volta (sono passati quasi dieci anni) per mitigare l'invadenza in ambito formativo delle TIC nel più ampio e articolato panorama tecnologico: <<Va detto, però, - scrive a pagina 154 - che il vasto panorama delle tecnologie interessa non solo quelle informatiche ma anche quelle legate per esempio alla materia o all'energia: tutte pervadono dinamicamente il contesto in cui viviamo, lavoriamo, studiamo, modificando in profondità buona parte della nostra vita, offrendo grandi opportuntà e ponendo molti problemi.>> Berlinguer mostra di considerare insufficiente il riconoscimento del valore della cultura della tecnologia e sente il bisogno di riaffermarlo con nettezza, dedicandole l'intero capitolo ottavo del suo saggio, intitolato appunto 'la cultura della tecnologia'. L'importanza della cultura tecnologica viene ribadita anche in rapporto all'indubbio valore della cultura scientifica, ad essa complementare, soprattutto per quanto attiene la sfera dell'azione, cioè della valutazione critica e della decisione su concrete problematiche di carattere sociale, civile, etico; scrive infatti: <<Da questo punto di vista il rapporto tra uomo e mondo artificiale diventa altrettanto importante quanto la relazione tra uomo e mondo naturale. La capacità di saper utilizzare, gestire e dominare le varie tecnologie e tecniche richiede un salto culturale da parte della società della conoscenza, a cominciare proprio dall'istruzione, chiamata a interagire con l'incremento della tecnologia e a rispondere alle nuove domande poste dall'accelerazione della tecnica per formare uomini e donne liberi e responsabili nell'agire.>>


Il "salto culturale", imposto dall'incontro con la tecnologia, oggi auspicato da Luigi Berlinguer, ri ricollega idealmente con quella "Cultural Revolution" alla quale Arnold Pacey intitolava il capitolo conclusivo del suo saggio di oltre trent'anni fa. Forse oggi i tempi sono maturi.

Che ne dite?